GQ (Italy)

I genitori ci hanno solo illuso

DANE DEHAAN con il suo sguardo da cattivo intergalat­tico è il protagonis­ta del prossimo fanta-kolossal di Luc Besson. Ma al bar gli chiedono ancora i documenti. La moglie l’ha conosciuta al liceo, ma per la figlia vuole un’infanzia meno borghese. E difend

- Testo di SIMONA SIRI Foto di GUY AROCH Servizio di PAUL SINCLAIRE

Per capire Dane Dehaan si potrebbe cominciare dalla fine, ovvero da quando, rimasti da soli nel ristorante di Brooklyn dove è avvenuta l’intervista, facciamo per salutarci e, arrivati sulla porta, prendiamo direzioni diverse. Nei dieci minuti in cui, con la coda dell’occhio, lo spio mentre rimane davanti al locale a controllar­e il telefonino, non c’è nessuno che si accorga che questo ragazzo in pantalonci­ni corti, maglietta e sandali è un famoso attore, uno destinato da qui a un mese a veder crescere esponenzia­lmente la propria fama grazie al kolossal di cui è protagonis­ta, Valerian e la città dei mille pianeti.

L’altro punto che può servire a capire l’uomo Dehaan arriva a metà intervista, quando Dane mi racconta come ancora oggi, che di anni ne ha 31, gli maniera naturale: quando invecchier­ò, arriverann­o anche ruoli da uomo più maturo».

Diretto da Luc Besson, il kolossal ha il record di film indipenden­te ed europeo più costoso della storia francese (circa 180 milioni di budget) e si appresta a competere con giganti come i film della Marvel con i suoi vari supereroi. Dehaan interpreta il personaggi­o del titolo, un agente spaziale intergalat­tico che insieme alla socia Laureline (Cara Delevingne) si imbarca in una missione per cercare di salvare il loro comandante, catturato da una specie sconosciut­a. Besson dice di averlo scelto proprio per l’aria giovane e tormentata da protagonis­ta di film indipenden­ti che niente ha a che vedere con i muscolosi eroi della Marvel (uno su tutti: Chris Hemsworth) e di averlo avuto in mente

«Ci hanno promesso che avremmo avuto il mondo ai nostri piedi. Poi, quando siamo diventati grandi, è come se ci avessero detto: ah no, scusate, ci siamo sbagliati, non c’è più lavoro, non ci sono più OPPORTU N I TÀ, non c’è più niente di niente»

capita che nei bar gli controllin­o la carta d’identità prima di servirgli alcolici. «È sempre stato così. A 21 anni i miei amici non mi portavano con loro a bere perché sapevano che avrei attirato l’attenzione e mi sarebbero stati chiesti i documenti. E siccome nel gruppo c’era sempre almeno uno più giovane, portare me equivaleva a essere scoperti al 100%».

Dimostrare meno anni lo ha però aiutato nella prima parte della carriera. A 26 è il figlio di Ryan Gosling in Come un tuono. A 28 è James Dean in Life e Lucien Carr in Giovani ribelli, in cui bacia Daniel Radcliffe che interpreta il poeta beat Allen Ginsberg. Anche in Valerian e la città dei mille pianeti, in realtà, sembra più giovane, ma non se ne fa un cruccio. «Non ci penso più di tanto, sono convinto che succederà in già da subito, tanto che «se Dane avesse detto di no al progetto, mi sarei trovato davvero nei guai». «E come avrei potuto?», ribatte lui quando gli cito le parole del regista. «Valerian è al 100% la visione di Besson, il film della sua vita, quello che ha sempre voluto girare. È un privilegio far parte di un progetto così». Lei recita da quando • un bambino. Non profession­almente, ma sì, ho sempre recitato. E non ho neanche mai avuto un piano B, quindi sono stato molto fortunato, perché mi è andata bene. Al college ho fatto il cameriere, come tanti, e immaginavo che l’avrei fatto anche dopo, invece non ce n’è stato bisogno perché, appena finita la scuola, ho incomincia­to a guadagnare e non ho più smesso. Ah, durante la prima campagna di Obama ho dato i volantini e

«Vivere a Los Angeles funzionava all’inizio della carriera, quando avevo bisogno di S FONDARE nell’ambiente... L’unica volta in cui qualcuno mi ha notato dentro a un aeroporto è stato perché avevo la security che mi scortava»

raccolto fondi per il Partito Democratic­o, ma non sono uno di quegli attori con storie di mille lavori alle spalle. La sua famiglia non ha niente a che fare con lo spettacolo... Assolutame­nte no. Non so da chi ho preso la passione, ma so che l’ho sempre avuta: già a quattro anni mi piaceva travestirm­i e mettermi nei panni di qualcun altro. Certo, all’epoca era solo un gioco divertente. A chi deve dire grazie? Chi ha creduto da subito in lei? I miei genitori, senz’altro: mi hanno sempre sostenuto. E poi a un’insegnante del liceo, la prima che forse ha intravisto qualcosa in me e che mi ha incoraggia­to a prendere lezioni di recitazion­e. Anche lei, come molti Millennial­s, è stato cresciuto con l’idea che avrebbe potuto fare tutto nella vita? Ci hanno detto che eravamo bravissimi e che avremmo avuto il mondo ai nostri piedi e poi, quando è stato il momento di andare davvero a prendersel­o, il mondo, è come se ci avessero detto: ah no, scusateci, ci siamo sbagliati. Ora non c’è più lavoro, non ci sono più opportunit­à, non c’è più niente di niente. Alcuni sostengono che i Millennial­s siano troppo pigri e pensino che tutto gli sia dovuto. Non credo che i Millennial­s siano svogliati o poco concentrat­i, sostenerlo è un po’ semplicist­ico. Penso che abbiamo ereditato un mondo incasinato e rovinato da chi è venuto prima, e che sia troppo facile, da parte della generazion­e precedente, dare la colpa a noi, che invece ci ritroviamo in questo mondo che non abbiamo scelto e all’interno del quale cerchiamo solo di cavarcela. Anzi, vista la situazione che ci è stata data, credo che stiamo facendo del nostro meglio. Quindi, crede che questo sia l’equivoco più grande sulla sua generazion­e? Sì, credo proprio di sì. Così come credo che una volta fosse tutto più facile: trovare lavoro, avanzare socialment­e, accumulare risorse. La generazion­e vissuta negli anni di Reagan ha goduto di un benessere economico che, purtroppo, è una delle ragioni per cui il mondo si ritrova nella situazione attuale. Lei è padre (di una bambina, Bowie Rose, nata ad aprile, ndr). È preoccupat­o del mondo in cui crescerà sua figlia? Ci pensa? Sono un padre entusiasta perché vivo lo stupore del neofita e, al momento, prevale l’eccitazion­e, la gioia di poter offrire a mia figlia un’infanzia diversa dalla mia: non che la mia sia stata brutta, solo borghese e molto limitata. Quello che invece voglio e posso offrire a Bowie è diversità, viaggi, apertura culturale. È per questo che ha deciso di lasciare Los Angeles e di tornare a vivere a New York? Anche. Los Angeles funzionava all’inizio della carriera, quando avevo bisogno di sfondare nell’ambiente. Ora ho il lusso di poter vivere qui, dove tutto è più stimolante proprio perché diverso e multicultu­rale. E poi sono nato sulla East Coast, mi piace il cambio delle stagioni. Altro stereotipo: i Millennial­s non si sposano. Lei invece l’ha fatto addirittur­a prima dei 30 anni (la moglie è Anna

Wood, anche lei attrice, ndr). Io e mia moglie stiamo insieme da 12 anni, ci siamo conosciuti al liceo. Sposarsi è stato un passo naturale. È anche una bellissima storia da raccontare a Bowie, quella di mamma e papà che si sono conosciuti a scuola. A proposito: il nome è un omaggio a David Bowie? Sì e no, nel senso che non è l’unico motivo per cui lo abbiamo scelto. Ci piaceva perché è un nome androgino, decisament­e cool. E perché è sempre stato il preferito di mia moglie. Quale musica ascoltava da ragazzino? E quali film guardava? A 14 anni ho passato un periodo in cui ascoltavo solo i Ben Folds Five. Ero ossessiona­to, sul serio. Invece, il film che in un certo senso mi ha cambiato la vita è stato

Il talento di Mr. Ripley di Anthony Minghella. Ricordo che guardando Philip Seymour Hoffman recitare ho capito che quello che stava facendo lui era diverso da quello che facevano tutti gli altri. Ci pensa che più diventa famoso più deve dire addio al suo anonimato? Finora è andata bene, e non credo che arriverò mai al punto in cui non potrò letteralme­nte uscire di casa. Credo che se uno lo vuole davvero, il modo di condurre una vita normale lo trova. Come? Non andando alle feste, agli eventi e non girando con le guardie del corpo. L’unica volta in cui qualcuno mi ha notato dentro a un aeroporto è stato perché avevo la security che mi scortava. Non so se si è capito, ma non sono il tipo a cui piace l’attenzione su di sé. Che cos’altro è, lei? Un uomo molto pacifico.

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