Non sono un pezzo da museo
Riceve le proposte di lavoro sulla segreteria telefonica, non ha un agente (figuriamoci i social) né fa filmoni giganteschi. Eppure, con quell’ espressione naturale da perdente, BILL MURRAY continua a essere uno degli attori più amati della sua generazion
St. Vincent è un piccolo film del 2014. Racconta la storia del rapporto tra un vicino di casa burbero e una Melissa Mccarty appena divorziata con un figlio da gestire. Anche se il vicino è un reduce del Vietnam, inacidito, fumatore, violento all’occorrenza e impermeabile a qualsiasi forma di correttezza politica, la donna finisce per ingaggiarlo come baby sitter. L’uomo insegnerà a stare al mondo al piccolo Oliver, e il bambino dimostrerà al reduce rampognoso che l’umanità non fa così schifo. Ancora prima che St. Vincent uscisse, in rete girava la sequenza dei titoli di coda: seduto nel giardinetto disadorno di casa sua, Bill Murray, lo spigoloso Vincent, ascolta Shelter from the storm di Bob Dylan con un vecchio walkman. Intanto fuma, canta, bagna un po’ le piante, passa il tempo. Sono tre minuti che si possono serenamente guardare anche trenta volte di fila senza capire come faccia Bill Murray a essere Bill Murray: un maestro assoluto della naturalezza, diverso da tutto quello cui siamo abituati.
Classe 1950, cresciuto fuori Chicago in una famiglia numerosa, cattolica e mezza irlandese, Bill Murray non solo interpreta, ma incarna da anni quel ruolo che prima era interpretato da Walter Matthau. Ma il burbero avaro di grandi sorrisi, quello che se ne frega abbastanza dei red carpet e dell’allegria prevista in scaletta, è cambiato parecchio nei trent’anni che separano Matthau da Murray. I baby boomers fanno una comicità meno legata alla famiglia, più dirompente anche dal punto di vista individuale, più hippie, quando non apertamente punk. La barriera che prima separava il comico dall’uomo tende ad assottigliarsi fino a sparire. In questo Murray ha diversi colleghi rivoluzionari più o meno coetanei. C’è John Belushi con questo spirito esplosivo e malinconico insieme che abbraccia sia l’arte che la vita. C’è Andy Kaufman (nato nel 1949 come Belushi) che vive il proprio ruolo di umorista come un artista rivoluzionario con la passione dell’antropologia: abbatte tutte le pareti, ribalta ogni meccanismo fino ad abbandonare quasi la comicità in senso stretto. Bill Murray non è una bomba nucleare come Belushi né un genio inafferrabile come Kaufman, ma porta con sé dei pezzi del loro infantilismo rivoluzionario, quella sensazione di non percepire nemmeno le regole, ancora prima di trasgredirle (è una chiave che perseguono in molti, ma pochi padroneggiano con leggerezza; Zach Galifianakis è uno di questi.) Bill Murray, però, rispetto ai suoi più talentuosi colleghi defunti, è qualcosa di diverso. È una persona che preferisce stare leggermente di traverso rispetto al flusso delle cose: è ciascuno di noi dopo che siamo venuti a patti con la vita. Ma mentre è così universalmente empatico, così vicino a tutti, è anche una persona originale e indipendente come vorremmo tanto essere.
Anche se lo spettacolo americano si basa su una tradizione di professionalità che sembra digerire qualsiasi eccentrico, a tutt’oggi Bill Murray risulta effettivamente una figura unica. Non ha un agente, non si fa intervistare quasi mai, si intrufola alle feste degli sconosciuti
I baby boomers fanno una comicità meno legata alla famiglia, più dirompente anche dal punto di vista individuale, più hippie, quando non apertamente punk. E MURRAY arriva al successo in anni in cui la stramberia vera era ancora ammessa
e compare così a caso sui social network. Ha anche una linea di insolito abbigliamento sgargiante da golf insieme ai suoi fratelli. È quello che va a trovare Barack Obama nello studio ovale con il giubbino dei Chicago Cubs per sfottere i Chicago White Sox del presidente. Complice una faccia che fa i conti saggiamente con i limiti insormontabili dell’esistenza, Bill Murray può fare tutte queste cose senza diventare il matto, l’estroso istrionico che è capace di qualsiasi virtuosismo. Perché Bill Murray è nel suo profondo uno sconfitto, un perdente che fa del suo meglio (e se non basta, pazienza). Spesso al cinema esprime questa dolcezza sincera, un po’ rigida ma profonda, che ricorda quella della seconda parte della carriera di James Stewart.
Nel corso degli anni, nonostante non sia mai protagonista di filmoni giganteschi, Bill Murray è sempre più chiaramente nella prima fascia della popolarità, quella dei veri giganti. Anche perché uno che riceve le proposte di lavoro solo tramite una segreteria telefonica, e lo fa come regola e non come vezzo, è il migliore in assoluto per quest’epoca di episodi della vita di qualsiasi personaggio condivisi in rete e trasformati in memi. È chiaro a tutti che una foto di Bill Murray su Instagram vale come 20 di Tom Hanks; che prendendo la Disney come universo di riferimento, Denzel Washington e tutti i suoi colleghi più celebri sono topi, mentre Bill Murray è evidentemente uno dei migliori paperi di sempre.
Ultimamente si sono fatti strada molti comici bravissimi, affilati come spade, arguti, impeccabili. Spesso nascono come monologhisti, puri maestri della tecnica e della comicità costruita con pazienza ed estro. Ma Bill Murray è arrivato al successo in anni in cui la stramberia vera, quella professionalmente complicata, era ancora ammessa. Non è chiaro se oggi sia ancora possibile attraversare gli anni della gavetta restando così di traverso, scegliendo film così particolari, interpretando il ruolo di comico in un senso così naturale, così esistenziale, anche a discapito dei red carpet, della gestione razionale dei social, dell’autoproduzione e della vita da show business. Ai tempi di Bill Murray si poteva. Ed è per questo che lui, anche solo per finta, davanti ai nostri occhi ingenui, riesce a essere credibile come perdente funzionale, nonostante faccia uno dei lavori più ambiti, remunerativi e soddisfacenti che ci siano in giro.