Qui, una volta, sono stato felice
Più che un sorriso, ha ancora il ghigno satanico di una volta. E a chi gli chiede del suo grande passato nel tennis, I VAN LENDL risponde: «Mi piaceva giocare, e basta. Da solo, in silenzio, nel campo di casa mia»
I due giovani influencer invitati all’evento non sembrano così convinti che Ivan Lendl possa influenzare i loro follower. Dalle tre domande che hanno fatto si direbbe abbiano un’idea vaga dell’augusto personaggio, e nessuna intenzione di precisarla. Però stanno calzando le Superga che ne portano il nome − un brillante restyling del modello usato a suo tempo da Ivan in gara: fra poco se le fotograferanno, posteranno lo scatto su Instagram, e avranno finito. Però meno male che sono venuti, perché assicurano un tocco di contemporaneità a una giornata che altrimenti rischierebbe di sembrare un filo rétro.
Siamo in una superba mansion di campagna a Richmond, con annessi una serra rimasta intatta dal tardo Settecento e un roseto fra i cui viali potrebbero tranquillamente aggirarsi Barry Lyndon e signora. Del resto dal passato i padroni di casa, cioè la famiglia Boglione, sono indubitabilmente attratti, o non avrebbero rivitalizzato uno dopo l’altro una serie di marchi che sono una capsula temporale dei tardi Settanta, o dei primi Ottanta: Robe di Kappa, K-way, Superga e addirittura (colpo da maestri) i jeans Jesus, di cui cominciava a perdersi persino il ricordo. Il definitivo retrogusto vintage è dato dalla presenza di alcuni rappresentanti della libera stampa, ma a rimettere le cose a posto − come nell’arcaico slogan dei Jesus passato, quello sì, alla storia − provvedono appunto gli influencer.
Lendl è in arrivo, e sono tutti vagamente nervosi. A quanto pare non ha preso con sé né giacca né camicia, ma per chi un minimo lo conosce non è una sorpresa. Paul Stewart, il bravissimo fotografo che lo ha ritratto in queste pagine, non si preoccupa. È reduce da uno shooting ad Arcore per il Sunday Times, dove gli è toccato l’inclusive tour − stanza delle nequizie e scatola di cravatte firmate incluse −, quindi è sicuro che con Lendl se la caverà, comunque si presenti. Be’, si presenta come lo vedete: un ragazzone di Ostrava oggi un po’ sovrappeso, cui fortuna, gloria e opulenza non hanno cambiato né l’umore né il codice vestimentario. Si fa fotografare, poi presenzia al primo appuntamento: una conferenza stampa in giardino, che sarà la più breve cui abbia mai assistito. Lorenzo Boglione, il più giovane della famiglia, ringrazia tutti per essere venuti, e ricorda che onore sia lavorare con un testimonial come Ivan − cui passa la parola. Ivan ringrazia a sua volta. Poi, dopo una breve pausa e con l’accenno di sorriso che probabilmente John Mcenroe si sogna ancora la notte, dice che da molto tempo non si ritrovava in un posto dove avevano tutti le stesse scarpe. Risatine nervose, poi silenzio. La conferenza stampa è finita, si passa alle interviste.
Rispolverando un trucco universitario, ho fatto in modo di rimanere per ultimo, nella speranza che i colleghi ammorbidissero il soggetto, o almeno che dal tavolo si allontanasse Jerry Solomon, che è il manager di Ivan da sempre − ai tempi, si diceva che quando Lendl aveva sete, Jerry beveva, e quando Lendl aveva caldo, Jerry sudava. Uno a uno, ho visto i miei predecessori sedersi espansivi, e alzarsi impietriti. Ero certo di fare la stessa fine, e per peggiorare le cose ho provato e riprovato la prima domanda che intendevo fargli, e cioè perché nella sua casa in Connecticut avesse tenuto per anni solo opere di Alfons Mucha, il geniaccio Art Nouveau di cui è il più grande collezionista al mondo − anni fa, a un cronista di Sports Illustrated, aveva risposto che mettere vicino a Mucha un altro artista sarebbe stato come scendere in campo con calzoncini Fila e maglietta Tacchini. Quando alla fine mi sono seduto, però, non era aria di divagazioni. Qualcuno prima di me gli aveva chiesto che sensazione gli desse essere sopravvissuto a un mondo scomparso, quello del tennis romantico − e l’aggettivo lo aveva enormemente irritato.
Ho provato a farmi raccontare subito perché avesse deciso di tornare, dopo tanti anni, e se il tennis gli fosse mancato. Risultato, una dichiarazione lapidaria: sono tornato perché era il momento giusto. L’ho messa sul tecnico, tentando di estorcergli su quale aspetto insistesse di più, con Murray, di cui ora è di nuovo l’allenatore: i colpi, la tenuta psicologica, o la condotta di gara. Dopo i sedici anni i colpi non si cambiano, mi ha detto − a meno di non chiamarsi Federer, penso abbia aggiunto, ma in un tale soffio che potrei essermelo
«Nei primi anni c’era un giovane americano che mi batteva sempre. L’ho studiato alla tv, e ho visto che serviva la seconda sempre sul dritto. Da allora con me non ha più vinto. Si chiamava MCENROE »
immaginato. Comunque, ha concluso, con Andy parliamo solo di tattica.
A proposito di tattica, gli ho confessato che il giorno prima di partire avevo rivisto qualche frammento della sua leggendaria partita con Chang, a Parigi, negli ottavi di finale dell’89, scoprendo con raccapriccio di ricordarla scambio dopo scambio. E mi aveva molto colpito una dichiarazione recente dello stesso Chang: “Da allora avrò incontrato Ivan migliaia di volte, ma su quel match non mi ha mai detto una parola”. Era vero? Qui Lendl, liberi di non crederci, ha sorriso. Certo, mi ha risposto, non avevo niente da dire: è un incontro sopravvalutato, nella mia carriera non ha contato. Non dovevo farlo, quel Roland Garros, ero infortunato, e se non mi ci fossi iscritto forse avrei vinto Wimbledon. Ma non è per questo che la ricordano tutti, ho provato a dirgli, la ricordano perché è l’incubo di ogni tennista: trovarsi davanti uno molto più scarso, che ti rimette una palletta finché tu non sbagli, e lui vince. Qui il sorriso si è aperto un po’ di più, ma avevo poco tempo per allargare la breccia. Allora coi tuoi dossier sugli avversari sembravi un alieno, ma non credi che col tempo il tennis abbia finito per somigliarti? Qui − sull’immagine di lui davanti alla tv per ore, con un blocco in cui annotava dove Mcenroe piazzasse servizi, dritti e rovesci − si è abbandonato a un racconto che meriterebbe più spazio. «All’inizio della mia carriera c’era un giovane americano che mi batteva sempre. L’ho studiato alla televisione, e ho visto che serviva la seconda sempre sul dritto. Da allora», pausa, e sorriso lievemente satanico, «con me non ha più vinto». I quindici minuti stavano scadendo, ma cosa gli piacesse del tennis dovevo chiederglielo. Era sempre stato il grande mistero, dopotutto. «Mi piaceva giocare», ha detto. «E basta. Da solo, in silenzio, nel campo di casa mia ( dove aveva fatto posare la stessa superficie degli Us Open, nda). Il resto − gli aerei, gli alberghi, i tornei − era lavoro, e spesso non mi piaceva. Ma su quel campo sì, ero felice».
È un peccato che Solomon si sia avvicinato facendo il segno delle forbici, sarebbe valsa la pena di chiacchierare per qualche altra ora. Però non c’era modo, anche se al momento di stringergli la mano non sono riuscito a non chiedere a Ivan se sapesse che oggi tutti noi, a ogni suo primo piano nel box di Murray, ci diciamo sempre la stessa cosa: guarda Lendl, chissà cosa sta pensando. « Most of the time, I’m sleeping », ha concluso. E, stavolta, ha proprio riso.
Tutti noi, oggi, a ogni suo primo piano nel box di MURRAY ci chiediamo: guarda Lendl, chissà cosa sta pensando. « Most of the time, I’m sleeping », dice Ivan. E, stavolta, ha proprio riso