Still Diana
E SE SOTTO IL PONT DE L’ALMA, A PARIGI, FOSSE ANDATA DIVERSAMENTE? SE IL 31 AGOSTO DEL 1997 UN FOTOGRAFO FOSSE RIUSCITO A METTERLA MIRACOLOSAMENTE IN SALVO? MENTRE TUTTI RIEVOCANO L’INCIDENTE DI QUELLA NOTTE DI VENT’ANNI FA, A NOI PIACE IMMAGINARE LADY D
La sera del 31 agosto 1997 Romuald Rat, un fotografo, è il primo ad arrivare sul luogo dell’incidente. Si prende cura di Diana che è in condizioni disperate. I suoi colleghi sulla scena intralciano gli aiuti, ma Romuald tiene in vita la Principessa. Quando raggiunge l’ospedale De La Pitié- Salpêtrière, le voci non confermate della morte di Diana si rincorrono, la principessa invece viene trasportata in elicottero in una clinica privata svizzera e sottoposta a un delicato intervento che dura 11 ore. Il 15 settembre, giorno del 13° compleanno del piccolo Harry, viene dichiarata fuori pericolo. Riappare in pubblico solo un anno dopo, quando è pronta per lanciare la sua nuova ONG contro le mine antiuomo. Escluse le occasioni ufficiali, non ha mai rilasciato interviste pubbliche. L’ultimo paparazzo se n’è andato tre anni fa, sfiancato dall’attesa sterile e dagli hot dog consumati trattenendo il respiro. Si chiamava Doug, Diana lo conosceva da quando era solo un’aspirante Principessa nell’ap- partamento di Old Brompton Road e lui per tenerla d’occhio aveva affittato la casa di fronte. Tra i pini di Cap Camarat, in Provenza, a pochi passi dalla villa in cui Diana vive da ormai quindici anni, Doug aveva persino rinunciato a mimetizzarsi, protagonista di una resa senza onore. Quando poi Diana, verso il tramonto, ha cominciato a salire agile verso la sua postazione per portargli generose porzioni di torta di mele, Doug ha dovuto misurarsi con la propria irrilevanza. Ed è svanito poco dopo.
Diana non aveva provato particolare sollievo, solo un principio di inquietudine, lo stesso che la coglie ogni anno a fine agosto, quando il mondo le ricorda dell’incidente e di tutto il resto. La partenza di Doug il paparazzo aveva solo sancito l’estinzione di una specie ormai sepolta sotto milioni di immagini Instagram. Per la Principessa una forma di risarcimento tardivo quanto inutile.
Quando ottengo di incontrarla, Diana è appena tornata da una visita al campo profughi di Al Zataari, in
Giordania. È il più grande al mondo, migliaia di esseri umani in fuga dalla guerra. Lì ha sede una delle sue ONG, quella che si occupa dei bambini senza genitori. Quando ne parla, un moto di pudore s’insinua nella sua voce. «C’è tanto da fare», sussurra. È stata Ambasciatrice per l’onu, ma ha abbandonato quasi subito. «Scelgo solo le cause che trovo più vicine alla mia indole. Non amo gli apparati o le persone che sanno quel che è giusto per me».
La casa è bella, però essenziale al punto da sembrare spoglia, un voto di concretezza, una reazione allo sfarzo che ha respirato a lungo. Il salone principale guarda in faccia il Mediterraneo, diffonde pace, un equilibrio raro. Non ci sono foto alle pareti, sui mobili si affollano souvenir, anche banali, dei suoi viaggi. Appoggiata a terra scorgo l’unica concessione a un passato celebre: la cornice col ritratto che le fece Patrick Demarchelier quasi trent’anni fa. Racconta di aver lottato contro tutti per trafugarlo da Kensington Palace, ma l’idea di milioni di turisti che ci transitassero di fronte come fosse una reliquia le faceva venire i brividi. Appare soddisfatta per quella sua foto in cui si mostra matura; malinconica, ma risoluta. «Quel servizio fu l’inizio di una nuova vita. Forse sono nata proprio in quei giorni, ho preso coscienza di me». Pochi mesi dopo si sarebbe separata dal Principe Carlo.
Non ama la folla, non le è mai riuscito facile mescolarsi, ha scelto la Provenza perché è abbastanza vicina a figli e nipoti, ma sufficientemente lontana dalla mondanità da cui si tiene alla larga come un convalescente che teme una ricaduta. Mi mostra un vecchio pianoforte che ora finalmente ha imparato a suonare e qualche tela appena abbozzata appoggiata a terra, perlopiù paesaggi. Il vecchio sogno di dipingere si fa strada di nuovo. «Vorrei avere molto più tempo», sospira mentre osserva l’iphone che non smette di vibrare nervosamente. La aspettano già a Parigi per una conferenza sull’aids, poi a Los Angeles dove deve ricevere un premio per il suo impegno nella battaglia al cambiamento climatico. Ci sono biglietti e note sparsi ovunque; noto quello di Jeremy Irons con gli auguri di compleanno, un mazzo di fiori ricevuti da Elton John e decine di altri, anonimi o di persone qualsiasi. I dodici milioni di followers che ha su Twitter un po’ la spaventano: protagonista quasi suo malgrado, sente che quest’orgia virtuale ci ha ormai immunizzato dalla realtà. Anche per questo, da qualche mese ha deciso di pubblicare su Instagram solo le foto ufficiali, i selfie sono banditi.
Mi conduce con un lampo di fugace euforia verso un’altra stanza, questa sì gremita di foto: sono quelle di William e Harry, e poi del piccolo George e di Charlotte, immagini felici di questi ultimi anni vissuti a volte con fatica, sopportata dalla Corona come un dolore reumatico mai davvero risolto. «Mi chiamavano “la mina vagante”, credo che a un certo punto volessero anche internarmi. Pensavano fossi stupida perché mi avevano bocciato all’esame di guida. Instabile per la storia della bulimia, dei tentati suicidi. Ma ero semplicemente sola e tremendamente infelice. Ma soprattutto troppo giovane per quel destino».
William sarà un re meraviglioso, dice orgogliosa, Harry è l’uomo più dolce di questo mondo. I suoi occhi si accendono mentre descrive i figli, sfiorando con l’indice le fotografie. Ricorda quando da piccoli li portava ogni settimana alla missione Passage Day Centre a cenare assieme ai diseredati. «Non danno nulla per scontato; sanno che, se ascoltano le persone comuni, avranno successo. Gli ho insegnato a non aver paura di mostrare i propri sentimenti, anche in pubblico. Quando io ho cominciato a farlo, mi sono salvata».
È fiera quando annuncia che la monarchia ha un futuro brillante, poi si siede per riprendere fiato, come se i ricordi le imponessero uno sforzo imprevisto. Sorride però, rilassata: non porta rancore. Carlo doveva restare scapolo, confessa, aveva una vita perfetta per un uomo della sua età. «Ho partorito William con il cesareo solo per non interferire col suo programma di partite di polo. Ho i brividi a ripensarci. Ma lui era vittima di quel sistema, non lo biasimo, è un buon padre ma sarà sempre un uomo triste, e non credo sarà mai re». Sulla Regina ha solo parole rispettose, pur avendone subìto l’ostilità: «Non si resta su quel trono per sessant’anni, se non si è una persona fuori del comune». Il suo e quello di corte erano solo due mondi inconciliabili. «Il loro senso dell’umorismo era incomprensibile».
Quando le chiedo se è vero che avrebbe voluto nascere maschio, il volto sembra attraversato da un fascio di energia radiosa. «Lo pensavo, ma ora sono felice, mi sento potente come nessun uomo potrebbe mai esserlo. Credo nella donna, dovremmo averne di più nei luoghi di maggiore responsabilità. È il tempo della riflessione, l’uomo rappresenta impulsività. E il mondo ne paga le conseguenze».
Si commuove ogni volta che pensa all’amico David Bowie, «un poeta che si prendeva cura di lei», così lo definisce. Poi passa accanto a una foto in cui appare accanto a Dodi al- Fayed e subito intuisce la mia curiosità. Anche Dodi ha sofferto molto dopo l’incidente, ora sono amici, lui è un donatore per le sue fondazioni. «Ma non era l’uomo della mia vita. Era la mia occasione per fuggire. Ma in quel lusso mi sarei smarrita di nuovo».
Evocare Dodi è come scivolare su cicatrici mai rimarginate del tutto. La notte del ’97 che ha cambiato tutto, il lento recupero, la distanza dai figli, la paura di non farcela. Da un ampio scrittoio in legno Diana estrae una foto, me la mostra orgogliosa, la ritrae in compagnia di Madre Teresa. «La donna che mi ha insegnato tutto», rivela. «La sua frase guida è: “Per aiutare gli altri bisogna soffrire”». Mi offre un sorriso delicato, dice di aver imparato la lezione. Poi mi accompagna verso l’uscita. Ha molte cose da sbrigare e un aereo da prendere di mattina presto. La saluto, non prima di riuscire a sbirciare la dedica scritta a mano proprio sulla foto con Madre Teresa: «Non ho paura di morire».