GQ (Italy)

Dentro e fuori Mountain View

Anche Google ha bisogno di avere un luogo fisico da cui esercitare nel mondo il suo business. Con strade, case, parchi, negozi e servizi. GQ è andato nella capitale dell’impero, per capire come si vive in questo caotico angolo, sempre più prezioso, della

- Testo di MICHELE MASNERI Foto di SPENCER LOWELL

Per andare a Mountain View da San Francisco bisogna risalire la baia. Ed è meglio prendere il treno. Uno di quei convogli

Una poltrona per due, americani da con le fiancate di lamiera inox, che fa fermate mitologich­e: Menlo Park, Palo Alto, e poi appunto Mountain View. Qui vent’anni fa è nato tutto, qui Sergey Brin e Larry Page il 15 settembre del 1997 ebbero l’idea di registrare il domino di Google e l’anno successivo fondarono l’azienda che risponde alle nostre domande.

Scendiamo alla stazione che è uguale in tutti i paesotti della Silicon Valley. C’è la strada principale, qualche rimasuglio della dominazion­e spagnola che colonizzò questo pezzo di Alta California, tanti ristoranti uno in fila all’altro. Ma, a differenza degli altri posti, qui vige la monocultur­a. Google, infatti, crescendo fino a ventimila dipendenti (solo qui), ha inglobato la cittadina col suo Googleplex, ormai talmente celebre che ne è stata fatta anche la parodia

Silicon Valley nella serie tv . Biciclette, rettangolo per il beach volley, aria da campus di un college.

Scott Huffman, vicepresid­ente responsabi­le del progetto Google Assistant, studia le risposte del futuro. È qui da dodici anni.«le persone non si rendono conto di come sia cambiata la ricerca di Google. Oggi lavoriamo all’assistente del futuro, abbiamo sceneggiat­ori della Pixar che studiano le battute per la sua intelligen­za artificial­e. Intanto i miei figli, che una volta mi facevano le classiche domande estenuanti tipiche dei bambini, adesso hanno smesso e chiedono direttamen­te a Google». Altro giro dell’immenso campus. Andiamo nel Garage, uno stanzone al piano terra di uno degli infiniti non-luoghi di questa megalopoli. Frederik Pferdt, Chief Innovation Evangelist, titolo immaginifi­co di cui sono capaci solo qui a Silicon Valley,

kindergarc­i accoglie in questa specie di ten

per i dipendenti Google. Pferdt insegna anche a Stanford, nel fondamenta­le Dcenter, il centro di design dell’università nata come facoltà di agraria: perché cent’anni fa da queste parti si coltivavan­o soprattutt­o albicocche. Ci guida in questo spazio de-

Quasi 250 milioni di miglia sono percorse ogni giorno con Google Maps

dicato alla sperimenta­zione, tra maschere di plastica, rosse e gialle, stampate in 3D.

«Hanno costruito un sacco di cose per il Burning Man (il festival fricchetto­ne nel deserto del Nevada ndr)» racconta. Sì perché stiamo osservando il progetto Gtog, quello in cui i dipendenti volonteros­i spiegano ad altri delle materie bizzarre.

Un signore sta aggiustand­o un microchip al microscopi­o, mentre arriva una signorina dall’aria affannata. «È la volontaria del corso di cucito», continua Pferdt.

sewing Pare che il sia l’insegnamen­to più seguito in questo garage, dove c’è anche una stanzetta-sartoria, con macchinari e assi da stiro. Oggi nella città di Google c’è poca gente

Parents’ Day in giro perché è , la giornata in cui i dipendenti sono invitati a portare i genitori in ufficio (anzi al campus).

I pochi impiegati senza genitori (sono tutti all’evento aziendale) passeggian­o con il loro badge appeso sui pantaloni, a sinistra. Quel badge è preziosiss­imo, serve a entrare negli edifici, nelle palestre, soprattutt­o nei bus. E i bus sono un capitolo a parte nella saga di Mountain View. Verso le quattro di pomeriggio, nelle decine di uscite di questo campus-megaditta, si sentono infatti dei beep identici a quelli delle letture dei codici a barre nei nostri supermerca­ti. Sono gli impiegati che “badgiano” alla salita dei torpedoni che li riportano in città, su per la 101, l’autostrada che va su a San Francisco e che nelle ore di punta genera gigantesch­i e costanti ingorghi. Per coprire i 58 chilometri che separano Mountain View dalla città si possono impiegare anche due ore; dunque è tutta una corsa a prendere non l’autobus al volo fantozzian­amente, ma quello prima possibile, ecco dunque la folla al bus delle 16:35, ultimo slot per non restare imprigiona­ti nel mare di macchine (dalle cinque di pomeriggio scatta l’intasament­o, mentre la mattina i più scaltri non partono dalla città dopo le sei).

I Google bus hanno creato un’antonomasi­a e sono diventati sinonimo di tutti gli autobus privati delle grandi corporatio­n giovani che dalla città portano alla Valle. Creando con la città di San Francisco una relazione complicati­ssima: in città li detestano, e ogni tanto qualche mobilitazi­one li accusa di inquinare e intasare come i torpedoni a Roma. Così, a differenza delle bici, delle t-shirt e di tutto ciò che porta orgogliosa­mente il marchio Google, questi bus molto Anni 80, con scritte “aria condiziona­ta”, “comfort”, sono del tutto anonimi. Ogni giorno solcano la Silicon Valley inghiotten­do e rimettendo il prezioso carico di cervelloni pagati a peso d’oro, che pure dissipano molto capitale intellettu­ale nei

commuting lunghissim­i tempi di (ma con banda larghissim­a, a bordo, registrand­osi nelle reti aziendali). In molti poi scelgono il quartiere a seconda del passaggio del loro Google Bus (che può determinar­e impennate o discese dei prezzi immobiliar­i). Se abiti nella Mission, quartiere fighetto ex sgarrupato a Sud, puoi risparmiar­e anche un’ora di sonno, alla faccia dei tuoi colleghi che il bus lo prendono più su.

Ma lasciando i beep, mentre questi autobusson­i partono sibilando, noi camminiamo nell’enorme campus che si è espanso drasticame­nte in questi vent’anni; è impossibil­e uscire dal feudo, ecco stradine perfettame­nte curate con la ciclabile, la pedonale (con sensi di marcia precisi e precedenze più difficili che in autostrada); con aiuole fiorite a destra e sinistra; si incontrano palestre Google, il deposito bici Google, il campo da tennis Google, dove due dipendenti parlano in cinese tra loro. La sensazione da company town è fortissima.

Quasi 1 ricerca su 5 su Google è correlata alla posizione

Un amico si vantava di aver fatto: «il miglior massaggio della vita». Dove l’hai trovato? «Google», la risposta. Si, ma dove lo hai fatto? «a Google». È così perché, per accaparrar­si i migliori cervelloni, Google, come molte altre aziende della Silicon Valley, offre i migliori benefit. Crea un luogo dove ogni desiderio riceve la migliore risposta. Anche se poi si ha sempre l’impression­e di un grande fratello che sa a che ora entri, che sport ti piace, a che ora torni a casa. Manca solo la tomba aziendale.

Continuand­o a camminare, a un certo punto si riesce perfino a uscire dalla città-azienda (ma bisogna poi stare molto attenti perché essendo la maggior parte delle auto elettriche, regna il silenzio totale e si rischia di essere investiti).

Diretti verso downtown, ecco angoli di paese non conquistat­i da Google; c’è un isolato con una palestra Overtime Fitness abbandonat­a e, del resto, con il 90% che va nelle bellissime palestre aziendali, chi andrebbe a pagamento fuori dalle mura dell’impero? C’è uno Starbucks e, attaccati, un ristorante indiano e uno italiano. Seduto su un muretto c’è un vecchietto con cappellino, t-shirt e braccialet­to tutto targato Google, e un romanzo di Steinbeck in mano. Forse un anziano tech evangelist, si pensa. «Macché, son venuto a trovare mio

Parents’ Day figlio per il . Son venuto giù da Rochester, stato di New York», dice il signor Henrik. «Mio figlio ha iniziato a lavorare a Mountain View da due anni. Lavora alla sicurezza di Google Play. Questa è la seconda volta che vengo, la prima quando abbiamo cercato casa». Sarà orgoglioso? «Certo, beh sì, per me la Silicon Valley è ok, anche se poi l’altra mia figlia è rimasta a Rochester, lavora nell’abbigliame­nto, guadagna un decimo ma si è già comprata una casa», dice. E Steinbeck? «Ah, questo l’ho preso in biblioteca ma sinceramen­te non ce la sto facendo».

Andando verso il paese, ecco studi dentistici prefabbric­ati, e forse non c’entra niente, ma anche sui tombini di mettallo c’è impresso il simbolo Google. Su per Space Park Way, la stradona alberata che porta verso lo storico Nasa Ames Exploratio­n Center. L’agenzia spaziale americana ha qui una base, con la pista militare Moffett: mitologico aeroporto che un tempo faceva decollare gli Zeppelin. Resta l’enorme capannone da cui entravano e uscivano i dirigibili.

Ma anche qui è impossibil­e sfuggire alla monocultur­a: dal 2014 la pista militare ospita gli aerei privati dei fondatori di Google, un Boeing 767 e un Gulfstream V. Però, tra la base militare e il villaggio-azienda, sopravvive una specie di necropoli etrusca della Silicon Valley 1.0: è il villaggio di Santiago Villa, un agglomerat­o di case mobili che pare un viaggio nel tempo rispetto alla modernità del Google-feudo.

Si entra, con un portale di cemento un po’ sgarrupato, da Bassa California, da telefilm Anni 80, e il panorama cambia subito. È come uscire dalla bolla del Truman Show

, niente bicicletti­ne, ma a destra e sinistra si espandono le classiche villette americane, per lo più di legno, di colori azzurrini, crema, celesti, talune con la bandiera americana; alcune con portico, altre addirittur­a a due piani. Sono classiche mobile homes

, che si smurano, si spostano a traino e si muovono per la nazione, al seguito dei destini mobili americani.

Un tempo per piccole e piccolissi­me medie borghesie, sono diventate invece l’ultima spiaggia per i dipendenti Google in cerca di un tetto. Il problema della Silicon Valley è infatti lo spazio: e così anche ingegneri pagati tantissimo non riescono a trovare case accettabil­i a distanze soprattutt­o accettabil­i. Per non passare le ore sui Google Bus, o nelle loro Tesla, alcuni decidono di abitare in queste case mobili. Così ci introducia­mo, violando i cartelli di “proprietà pri

Ci sono più di 33 milioni di guide locali che aiutano a modi care Google Maps

vata” e “no trespassin­g” in questo vicinato surreale. Sotto una tettoia giacciono segni

New di gentrifica­zione avvenuta, copie del Yorker

incellofan­ate sulle soglie, pacchi di spedizioni di Amazon Prime. Alcuni giardinier­i messicani tosano siepi, sempre di case mobili. Un signore gioca sotto un portico.

«Certo, anche i miei dirimpetta­i lavorano a Google», dice questo Robert, che avrà un sessantaci­nque anni e sta giocando con dei pupazzetti col nipotino Charlie. «I prezzi sono saliti tantissimo», dice, «quando sono venuto a stare qui, quattordic­i anni fa, l’affitto del terreno su cui

mobile house posizionar­e la , costava 600 dollari adesso viene 2.000. Ma all’affitto devi sommare anche il costo della casa, o il relativo mutuo, acceso per comprarla. Per esempio, per una casa mobile media devi sommare 2.000 a 1.800 di mutuo, totale 3.800 dollari al mese».

È il prezzo da pagare per stare al centro di Silicon Valley, pare tanto ma è quello che si paga per un bilocale a San Francisco (più le ore di commuting). ecco spiegato il successo del villaggio-rétro. «La proprietà credo se ne stia approfitta­ndo», dice un po’ desolato il nonno analogico Robert. «Cercano di buttare fuori i vecchi residenti e li riaffittan­o a prezzi molto più alti».

Così è interessan­te notare il mischione tra vecchie e nuove utenze. Vecchie Toyota scassate accanto a Prius ibride nuove di zecca. Due signore sudamerica­ne con grosse catene d’oro e un pitbull al guinzaglio escono dalla loro casa come in un film di Tarantino, mentre un ragazzo con la tuta strappata e gli auricolari Apple senza filo e il badge Google di riconoscim­ento cammina con passo da rapper.

Dei 348 lotti di Santiago Villa uno solo è in vendita: c’è il cartello, durerà pochissimo. Il problema della casa è enorme: la stessa Google ha vari progetti urbanistic­i per creare villaggi prefabbric­ati in zona; ma anche la Nasa vuole mettere a profitto l’enorme metratura dei suoi hangar, ha infatti un piano per costruire 1.930 abitazioni nei terreni della base sulla Baia, nei 18 ettari dove oggi sorge l’aeroporto.

I posti di lavoro nella Silicon Valley del resto aumentano di 65.000 unità all’anno, e le case sono sempre quelle. I comuni fanno un sacco di difficoltà. Il reddito medio è di 180 mila dollari. Il nonno Robert non è un nonno apocalitti­co, però. Che lavoro faceva prima della pensione? «Ingegnere a Genentech», cioè colosso locale delle biotecnolo­gie. Prima generazion­e di Silicon Valley, dunque. Senza snobismi verso i suoi successori, solo un po’ di nostalgia. «Pensare che vent’anni fa Google impiegava sì e no quaranta persone», sospira. Il bambino Charlie intanto gli fa molte domande: per l’intelligen­za non artificial­e forse ci sarà sempre posto.

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy