Maestri di scuola
Inchiesta su un lavoro che rischia l’estinzione in tutta Europa
allenatori. In quel momento, mentre ero giocatore, questo era visto come una ribellione, ma non lo era. Era che, fondamentalmente, già vedevo le cose dal punto di vista dell’allenatore, più che da quello che mi competeva, di giocatore. Poi dopo, sicuramente, l’ultimo passo l’ho fatto quando sono stato messo a giocare davanti alla difesa. Allora lì hai la visione di tutto il campo. E soprattutto…». Chi ti ci ha messo, Galeone? «Sì. E soprattutto, lì, mi ricordo, gli anni del 4-4-2, l’uomo davanti alla difesa era immarcabile. Mi ricordo all’inizio c’era Novellino, che era sulla panchina del Napoli, mi metteva sempre addosso una punta: e io quella punta la portavo a giro, e dopo due volte che girava insieme a me la punta si fermava, io mi facevo dare il pallone e iniziavo l’azione. Infatti dicevo ai difensori: “Aspettate finché non mi libero, e poi iniziamo l’azione”». Secondo te qual è il dono che hai ricevuto? Qual è la tua vera dote, come allenatore? «Il vero dono è quello di capire le cose velocemente. Io non sono uno che sta ventisei ore a pensare a una partita. Io dico sempre che ci sono gli allenatori costruiti e gli allenatori naturali. Io, anche per le cose che ho detto prima, sono di quelli naturali. Non devo star lì a vedere video per ore e ore. Guardo quello che devo guardare e in un quarto d’ora capisco quello che posso capire. Se sto tutto il giorno a vedere video alla fine non capisco nulla». In effetti la cosa che mi ha colpito più di tutte la stagione scorsa è stata quello che hai detto a caldo dopo la sconfitta brutta col Genoa: «Primo tempo, loro 14 falli, noi 1, risultato 3-0 per loro». Che poi è quello che è successo anche a Cardiff, nel secondo tempo.
«Uguale. Ci hanno gonfiato». Sì ma mica tanti avrebbero subito individuato quel dato tra tutti quelli che oggi vengono forniti… «Allora ti dico una cosa: il lunedì mattina mi arrivano dei pacchi di roba così, tutti i numeri possibili e immaginabili estratti dalla partita della domenica. Io non li leggo nemmeno, guardo soltanto il numero dei falli fatti e subiti e i duelli aerei vinti e persi. Fine. Non guardo altro. Perché se fai fallo, vuol dire che sei vicino alla palla, e dov’è che si difende, nel calcio? Vicino alla palla. Se metti undici giocatori attaccati l’uno all’altro sulla linea di porta, non la coprono tutta. Se fai fallo, vuol dire che sei vicino alla palla, e se sei vicino alla palla vuol dire che stai difendendo. A Genova ci hanno gonfiato come zampogne, così come a Cardiff – nel secondo tempo, perché nel primo eravamo molto più aggressivi. Appena è finita l’aggressività, è finita la partita». Però adesso ci sono tutte queste letture teoriche, tutti questi esperti che fanno l’analisi delle partite, prima, durante, dopo. Disquisizioni tecnico-tattiche a non finire. E questa cosa stinge, per così dire, nella tifoseria e nei dirigenti. Pensi che questa tendenza possa, alla lunga, condizionare anche le società a ingaggiare sempre più allenatori costruiti, come dici tu, a danno degli allenatori naturali? «Allora: a parte che io son quasi alla fine perché ho cinquant’anni, e fra cinque o sei anni smetto…». Come smetti? Perché? «Perché finché mi diverto ad andare in campo e insegnare io continuo, ma nel momento in cui non mi divertirò più smetterò, e avrò risolto il problema. A me piace vedere i giocatori crescere, mi piace far debuttare i ragazzini e vederli diventare grandi. A me piace insegnare. Alla fine dell’anno mi piace vedere dei giocatori che sono migliorati, per me è una soddisfazione enorme. Nel momento in cui smetto di sentire questa magia, non ha più senso che alleni». Cioè a te la Nazionale non interessa allenarla? «La Nazionale sì. La Nazionale è un’altra cosa. È un motivo d’orgoglio. E ti dico anche che la Nazionale italiana dei nati tra il 1992 e il 2000 ha due generazioni di giocatori molto bravi. Son forti. Sarà una Nazionale forte, nei prossimi anni». Prima stavamo parlando del calcio teorico, ma poi ci siamo un po’ persi... «Sì, giusto. E allora ti dico chiaro che io son contro tutte queste letture teoriche, i Deep Data, ci divento matto: perché la partita inizia alle tre e finisce a un quarto alle cinque, ma dalle tre a un quarto alle cinque ci sono tante partite dentro una partita. Te hai ragione, vogliono far diventare il calcio una scienza esatta, ma il calcio non sarà mai una scienza esatta, ci sono troppe variabili. Come possono pensare che in una metà campo dove sei in ventidue, dove ci sono contrasti, con la palla che rimbalza di qua e di là, tu vinci perché applichi gli schemi? Io vado spesso a vedere i settori giovanili e sempre più spesso vedo che ai bambini insegnano un calcio fatto di numeri, di schemi forzati: “Tu la passi al 3, il 3 la passa al 6, il 6 la passa al 4”. Oppure, “lo schema è che si deve dare la palla alla punta e la punta la deve scaricare indietro al centrocampista”: ho capito, ma se la punta è in buona posizione forse è meglio che si giri e tiri in porta e faccia gol, no? Il gol è valido lo stesso, anche se non hai eseguito lo schema».
«Il lunedì mi arrivano pacchi di roba così, tutte le cifre possibili estratte dalla partita della domenica. Io non le leggo, guardo solo il numero dei falli. Perché se fai FALLO, vuol dire che sei vicino alla palla, e dov’è che si difende, nel calcio? Vicino alla palla»
Gli schemi. Appunto. «Che poi gli allenatori di vecchia generazione, Galeone, Mazzone, Mondonico, Orrico stesso, tutta gente che mi ha insegnato molto, avevano un modo di approcciare le cose molto diverso. Trasmettevano sicurezza. Invece una gran parte degli allenatori di oggi è insicura. Preparano la partita, dicono “domenica si va in campo così e cosà”, poi arriva il sabato mattina, viene giù un temporale, tuoni e fulmini, le condizioni sono cambiate completamente e non possono più mettere le cose come volevano, ma loro lo fanno lo stesso sennò vanno in confusione. Io dico: se il sabato mattina piove a dirotto e non puoi più preparare la gara come volevi, vai in palestra e fai una partita di pallacanestro, che tanto la domenica giochi lo stesso. Non è che se non hai fatto la rifinitura come volevi te, allora perdi. Galeone diceva che se arrivati a febbraio l’allenatore doveva ancora spiegare ai giocatori cosa dovevano fare voleva dire che non gli aveva trasmesso niente. Il calcio è semplice, ragazzi. È inutile complicarlo, è semplice: in campo tu devi fare l’opposto di quello che fa l’avversario. Se l’avversario ti viene incontro, ti allontani. Se si allontana, gli vai incontro. Fine. Vogliono renderlo più difficile di quello che è. E a me queste cose mi mandano nei pazzi». Ecco, a proposito di andare nei pazzi. Io una volta parlai con Francescoli, subito dopo la finale vinta della Coppa America in Uruguay, quando lui segnò il rigore col braccio al collo, e gli chiesi se, col cervello che aveva, dopo aver smesso di giocare avrebbe fatto l’allenatore. «Per carità di Dio», mi rispose, «non ci penso nemmeno. Tutto quello stress. Finché uno gioca, in campo lo sfoga, ma in panchina come fa?». E infatti Francescoli non allena. Tu come fai, con lo stress? Come lo tieni a bada? «Mah, senti, un po’ è il mio carattere. Alla fine, le partite che non ho giocato da giocatore, essendo stato un giocatore normale, le finali, le sfide-scudetto, le gioco ora da allenatore. E le gioco proprio, mentalmente, la sera prima, tutte intere. Questo mi rende più distaccato, che è una cosa che ha a che fare con la dote di cui parlavamo prima, di saper capire in fretta le cose da fare». Ma c’entra anche la livornesità, in questo? Quel “Torno subito” che nelle giornate estive c’è scritto sulla porta di metà negozi della città perché i commercianti vanno a fare il bagno?
«Metà? Tre quarti!». Appunto. Tutti al mare. C’entra questo?
«C’entra eccome». Che poi – tutti diversi, per carità – questo pezzo di costa tra Viareggio e Piombino ne ha dati di allenatori importanti: RECORD Nella stagione 2016-2017, Allegri ha portato la Juve al sesto scudetto consecutivo, il suo quarto in panchina ( più di lui solo Trapattoni, Capello e Lippi) te, Lippi, Mazzarri, Agroppi, Sonetti…
«Fascetti. Un altro maestro del calcio semplice». Appunto. Dev’esserci pur qualcosa nel carattere collettivo, una sorta di genius loci, perché altrimenti questa densità si spiega male. «Senza dubbio. Si vede che ci troviamo più preparati, più pronti a gestirlo, lo stress». E in questo senso com’è il tuo rapporto con Torino, che come città sembrerebbe quasi l’opposto di Livorno? «Non “quasi”, è proprio l’opposto completo. Ma io, forse per questo, mi ci trovo benissimo. È bellissima. Rilassante. Poche distrazioni. Quadrata, ordinata fin dalle strade, tutte belle ortogonali, precise. L’ideale per allenare una squadra di calcio. A Torino è più facile chiedere ordine ai tuoi giocatori. E non lo dico io, lo dice la storia della Juventus». Quali sono stati i tuoi idoli quando eri ragazzino? «Un solo idolo: Platini. Platini giocava a calcio con un’intelligenza strepitosa. Rendeva di una semplicità estrema le cose difficili. Aveva questo calcio meraviglioso, proprio come gesto. Che poi quando si insegna ai bambini bisognerebbe semplicemente farglielo vedere, il gesto, perché se cerchi di spiegarglielo a parole non ci riesci. Se glielo fai vedere, quelli dotati lo replicano. A quelli non dotati, che non sono in grado di replicarlo, è inutile spiegarglielo». Chinaglia, quando gli chiesero cosa avrebbe fatto se non avesse fatto il calciatore, rispose: «Il cameriere». Del Piero: «Il camionista». Tu? Cosa avresti fatto? «Mio padre lavorava al porto. E a quel tempo lì, che il porto funzionava bene, al diciottesimo anno d’età il primo figlio maschio entrava a lavorare in porto di diritto − se c’erano dei portuali che andavano in pensione − oppure veniva appoggiato all’unicoop, e poi, quando si liberava il posto, veniva messo dentro. Io infatti cosa feci? Dopo aver preso la patente B presi anche la patente C, perché con quella avrei potuto prendere la patente D che mi sarebbe servita per entrare in porto. La strada era già segnata. Non è che avessi scelta». Tu ce l’hai uno spirito guida? Una figura alla quale ti ispiri? Della quale, prima di fare una cosa, ti chiedi come l’avrebbe fatta lui? «In realtà ci sono tre persone, tra vita privata e lavoro, che mi ispirano. Una è mio padre. L’altra è Galeone. E l’altra ancora si chiama Mauro Grazzini, che è un mio carissimo amico – era, perché è mancato pochi mesi fa – più grande di me, che è stato sempre un fratello maggiore, che mi ha accompagnato nelle cazzate facendomi capire quando bisognava smettere di farle. Galeone è Galeone.
«In campo devi fare L’OPPOSTO di quello che fa l’avversario. Se l’avversario ti viene incontro, ti allontani. Se si allontana, gli vai incontro. Fine. Vogliono rendere il calcio più dif cile di quello che è. E a me queste cose mi fanno impazzire»
Mio padre l’ho capito un po’ per volta. Lui il suo, di padre, non l’aveva nemmeno conosciuto, perché è morto quando aveva tre anni. Nel ‘42, quando erano sfollati a Calci. Era su un treno, e invece di scendere alla fermata dopo, ora non mi ricordo più quale, decise di scendere a Pisa. Bombardamento, e ci rimase sotto. Sicché mio padre rimase senza il babbo a tre anni. Credo che per questo mi abbia dato più di quello che di solito i padri riescono a dare ai figli». Tornando al calcio, secondo te è ancora possibile che nel mondo esistano dei fenomeni pazzeschi di cui nessuno si accorge? Negli anni del calcio “innocente”, se vogliamo chiamarlo così, questo era lo spauracchio, e infatti la figura mitica che prima o poi doveva spuntare nel campo dove uno giocava era quella dell’osservatore. Ma ora? Con le televisioni che trasmettono tutti i campionati del mondo? È ancora così? «Senti, tutto può essere, però mi viene da dire che è impossibile. Quello che però è rimasto uguale a prima è il numero dei fenomeni: di fenomeni nel mondo continuano a essercene solo uno, o due, com’era prima, per ogni generazione. Il che mi fa pensare che alla fine, pur con mezzi più romantici, diciamo così, anche prima l’osservazione dei ragazzini funzionava. Pochi erano prima, i fenomeni, e pochi sono oggi. La differenza è che ora ci sono tanti più soldi e tante più squadre con diversi giocatori forti. Vincere la Champions ora non è come vincerla trent’anni fa». Giusto. Il Milan di Sacchi, con tutto il rispetto che merita, in finale ha battuto il Benfica e la Steaua Bucarest.
«Già. Ora la Steaua in finale non ci arriva più». E comunque tu ora hai tutti questi ragazzi in squadra, no? Alcuni più maturi, altri giovani giovani, provenienti da Paesi e situazioni diversissime: come fai a impostare il tuo rapporto con loro? Non so se è la stessa cosa, ma io lovedo coi figli: ne ho cinque, e ho capito che non si devetenere lo stesso comportamento con tutti, anche a costo dinon essere imparziali. A quello che ha più bisogno, occorre dare di più. Quello che ha necessità di essere lasciato solo, dev’essere lasciato solo. È così anche quando si deve guidare una squadra? «Uguale. Tu pensa che io ho cambiato anche modo di lavorare, perché ho capito che l’aspetto psicologico è l’ottanta per cento della prestazione dei giocatori. Io ora delego molto allo staff, per la preparazione atletica, la tecnica eccetera. Io entro nell’esercitazione principale, lavorando su ogni singolo giocatore, per capire quando gli va dato qualcosa, quando gli va tolto, cosa gli va chiesto, a ognuno, perché alla fine sono dei ragazzi e ognuno di loro ha bisogno di coccole e di severità, ma in momenti diversi e in situazioni diverse l’uno dall’altro. C’è il momento in cui uno dev’essere ripreso da solo e quello in cui dev’essere ripreso davanti ai compagni. E c’è il momento in cui devi tirarti indietro te, in cui devi mollare». E a te tutto questo viene naturale… «Be’, ho due figli anch’io, una già grande e uno ancora piccolo. La pazienza che ci vuole con loro ci vuole anche coi giocatori». Senti, che rapporto hai tu con il dolore? L’hai conosciuto, lo temi, lo sopporti? «Il dolore, morale, soprattutto, l’ho conosciuto fin da bambino, e perciò non è che mi trovi impreparato. Non lo patisco, non lo subisco. Le mortificazioni, che poi appunto sono dolore. Lo racconto spesso a mio figlio: io da bambino ero gracile, a quattordici anni pesavo trentatré chili. Mia madre mi portava continuamente dai dottori −“Il bambino non cresce” − e quelli la rassicuravano sempre, finché alla fine l’ultimo le disse di non portarmici più perché sarei diventato alto di statura. Ma intanto quando andavo a giocare a calcio è normale che, secco com’ero, mi pigliavano un po’ in giro, mi davano le botte, mi dicevano che avevo un fisico di merda, e queste cose qui ti fanno male. Ma ti formano, anche. E ti formano perché, per esempio, ti producono un desiderio di rivalsa. Andavo a giocare con quelli grandi, mi facevano portare il pallone e non mi permettevano di giocare, e nella testa io avevo una cattiveria che mi formava: “Ora vi divertite voi, poi vediamo più avanti chi si diverte”. I bambini di oggi invece sono troppo protetti dal dolore – e tra questi genitori troppo protettivi mi ci metto anch’io, sia ben chiaro. Troppo protetti. Facciamo di tutto per tenerli lontani dal dolore, ma il dolore invece fortifica, anche, serve». Mi piacerebbe chiudere con qualcosa sulla Juve di quest’anno, sulla sua forza, sulla tua soddisfazione di essere ancora su questa panchina. Perché i tifosi sono un po’ divisi, sembrano ancora traumatizzati da Cardiff, a proposito di dolore… «Senti, io sono contentissimo della rosa che abbiamo. È migliorata, e non era facile. Siamo fortissimi. Ai tifosi dico di liberarsi della negatività, di non arrovellarsi sulle sconfitte passate. Le finali si perdono e si vincono, è sempre stato così, e così sarà anche per la Juventus. Lo dico anche ai giocatori, perché per fare grandi cose, col talento che hanno, gli ci vuole solo l’incoscienza. Un po’ di sana follia, mettere da parte i ragionamenti e pensarsi invincibili». Come Szcze˛sny alla conferenza stampa di presentazione, quando gli hanno chiesto quale fosse il suo punto debole? «Ora sono un giocatore della Juventus», ha risposto, «d’ora in poi non ho punti deboli». Così?
«Preciso. Così».
«La JUVENTUS di quest’anno? Siamo fortissimi. Ai tifosi dico di liberarsi della negatività, di non arrovellarsi sulle scon tte passate... E lo dico anche ai giocatori, perché per fare grandi cose, col talento che hanno, gli basta solo pensarsi invincibili»