GQ (Italy)

Valtteri Bottas

Molto più che una polo: un simbolo di libertà. Nella fabbrica L ACOST E di Troyes tra alchimisti, telai, bobine di lati e pezze di petit piqué. Per capire lo spirito di un pezzo cult dello stile maschile made in France. Che certe lacrime non ha mai pensa

- Testo di MARZIO G. MIAN Foto di FABRIZIO GIRALDI

Sembrava una seconda scelta, invece è il primo della classe

I colori, tutt’a un tratto viene in mente che è forse nei colori che sta il segreto. Difatti qui hanno l’aria di voler nascondere qualcosa, indossano il camice bianco, si muovono tra gli alambicchi con circospezi­one. Gentili, ma non saranno un po’ reticenti? Raccontano che ci vogliono circa due mesi per rispedire a Parigi il nuovo colore “sviluppato” e che lo testano contro la luce del sole, il sudore, i lavaggi sbagliati. Mostrano tranquilla­mente le nuove tinte a cui stanno lavorando per il prossimo anno, c’è anche una tonalità cipria che deve essere proprio una gran novità.

Il pensiero, qui a Troyes, tra gli alchimisti della madre di tutte le fabbriche Lacoste, va indietro di un bel po’ di anni, quando la gamma di colori era limitata come le lire per comprarle. Tra gli amici del liceo circolava la voce che si potesse personaliz­zare la maglietta con una misura precisa di candeggina, e difatti alle feste vedevi risultati stupefacen­ti, dal blu nasceva un turchese impareggia­bile, da un beige ecco un rosa dai sapori antichi. Rivisitazi­oni d’artista, altrimenti il dosaggio sbagliato poteva essere disperante, ed erano lacrime da coccodrill­o.

La circospezi­one del laboratori­o, in realtà, rivela subito soltanto discrezion­e. Quella sì ingredient­e segreto e irripetibi­le d’un marchio che ha fatto dell’antiarroga­nza il suo colpo di classe vincente, implacabil­e quanto il rovescio di René Lacoste, il fondatore e grande campione di tennis, uno dei quattro “moschettie­ri” francesi che, tra il 1927 e il 1932, umiliarono gli americani conquistan­do, appunto, due campionati d’america sull’erba, tre coppe Davis e due tornei di Wimbledon. I suoi compagni si chiamavano Jean Borotra, Henri Cochet e Jacques Brugnon. René era stato soprannomi­nato il “Coccodrill­o”, perché una volta azzannati gli avversari non li mollava più, ma prima usava modi modesti e rispettosi. E dopo averli stesi annotava su un taccuino nero le loro qualità.

Fa un certo effetto trovarsi nel luogo dove è nata una delle formule che hanno cambiato l’estetica maschile, perché Lacoste nel Novecento è stato per lo stile dell’uomo sportivo quello che Albert Einstein è stato per la fisica: c’è un prima e un dopo questa maglietta tanto semplice quanto sofisticat­a. La polo più indossata di sempre è sempre moderna e mai di moda; attraversa i tempi e i costumi senza lasciarsi scalfire; a quasi 85 anni di vita non mostra una ruga. Resta simbolo d’una eleganza sportiva pulita, discreta, soprattutt­o in un’epoca affollata di sponsor, ostentazio­ni e interessi. Una formula che, a differenza della Coca- Cola, non resta chiusa in un caveau in Svizzera. Si tratta di numeri che la signora Louise elenca con piacere, come se stesse rivelando la ricetta dell’andouillet­te de Troyes, la famosa salsiccia di trippa di porco delle Ardenne.

I colori, si diceva. Ebbene ora siamo nel reparto tinteggiat­ura (nello stabilimen­to i macchinari sono per lo più italiani e giapponesi): «Per il nero servono 10 chili di colore per cento chili di tessuto, mentre per gli altri colori bastano 10 grammi di pigmento. Ah, dimenticav­o, sono prodotti appositame­nte in Svizzera e in Germania». Passa un ragazzo con un carrello delle pezze tinte: su un cartellino compare ancora il nome di André Gillier, l’imprendito­re allora già affermato nel distretto del tessile dell’aube, il dipartimen­to di Troyes, e che divenne socio di René nel 1933 quando − per migliorare le prestazion­i − portò il suo manifesto futurista sulla terra rossa.

«Voleva sbarazzars­i del blazer pesante e scomodo che s’usava allora in campo», spiega Louise. E creò, prima di tutto per se stesso, una maglia a maniche corte tricot che utilizza un cotone trasparent­e e più leggero, il celebre petit piqué. Il design rivoluzion­ario per una maglia, la libertà di movimento delle maniche corte, ma l’eleganza di una camicia nel colletto a coste. Quindi la volée del genio: il coccodrill­o all’altezza del cuore. «Pour le tennis, le golf, la plage…», lo slogan dal gusto dannunzian­o. Infatti, se Novak Ðokovic´ è l’ultimo testimonia­l, il più dandy degli intellettu­ali fu il primo: a Gardone il poeta già nel 1935 indossava les crocos che arrivavano direttamen­te da Troyes per corriere. Poi calarono i panzer nazisti e René, raccontano in fabbrica, fece la sua partita. Quel crocodile rappresent­ava la Francia, un misto di République, Marianne, Napoleone e giustifica­to orgoglio storico. Proprio per questo motivo, quando i tedeschi invasero la Francia, Lacoste ordinò d’interrompe­re la produzione delle polo qui a Troyes: «Non voglio che un ufficiale delle SS o della Wehrmacht l’indossi».

Dei 12 milioni di pezzi venduti nel mondo, qui se ne producono solo 600 mila. Ma l’ad Thierry Guibert fa sapere che la quota del made in France, cioè Troyes, diventerà il simbolo della nuova primavera che sta vivendo il marchio sotto la sua gestione (oltre due miliardi di fatturato nel 2016, 1.400 boutique), ossia il valore aggiunto de l’élégance à la française.

Bisogna essere filosofi o temerari per decidere di mettere mano a un simile brand, come pensare d’intervenir­e nell’allure dello champagne. Ma a pensarci bene, Guibert sta lavorando proprio come un enologo: ha gradualmen­te spostato il marchio dal mondo lusso in cui era scivolato − «Il lusso ostenta e umilia», dice, «non è il nostro spirito» − e sappiamo come prosperano i ricavi in quella fascia. Ma nel contempo ha anche chiuso il 20 per cento dei punti vendita negli Usa, che andavano alla grande, per non inflaziona­re il marchio ed evitare la trappola del fashion.

Quindi: un tocco di casual per recuperare i giovani e, infine, una nuova iniezione di «francesità, cioè quel saper vivere raffinato che hanno i francesi quando non sono arroganti». In tre anni Lacoste, che in Italia è distribuit­a da

Dei 12 MILIONI di Lacoste vendute ogni anno nel mondo, ben 600 mila sono prodotte nel quartier generale di Troyes. E la quota del made in France è destinata ad aumentare, grazie al nuovo incremento di personale e macchinari

Colmar − investirà a Troyes tra i 3 e i 5 milioni. In parte per modernizza­re i macchinari, anche se quelli pensati da René, come un certo aggeggio per le asole, restano a testimonia­re la versatilit­à rinascimen­tale di questo tennista-artigiano, bricoleur fino all’ultimo nello scantinato di villa Lacostenia, sull’oceano, non lontano da Saint-jean-de-luz, in terra basca. Aveva sempre amato progettare e realizzare con le proprie mani gli oggetti più disparati. Aveva inventato il lanciapall­e con cui si allenano i tennisti, la racchetta in acciaio venduta in sei milioni di esemplari in tutto il mondo, alcune mazze da golf, le tute sportive e anche alcuni strani congegni montati su aerei supersonic­i come il Concorde.

Gli investimen­ti del nuovo corso sono per lo più destinati al fattore umano, per continuare il progetto della Manufactur­ing Academy, inaugurata lo scorso marzo: un anno di formazione per dieci magliai, sette tintori e 12 confeziona­tori. Tra i settecento lavoratori è facile distinguer­e gli allievi addetti al tricotage, alla confezione o al taglio: indossano una polo nera e stanno sempre al fianco di un “anziano”. Seguono 399 ore di formazione per passare poi alle macchine. Retribuzio­ne: 1.600 euro al mese.

«Mestieri complessi che si stanno perdendo», dice Louise. «Dobbiamo garantire la continuità, trasmetter­e la mano». Nello stabilimen­to, molti sono al capolinea lavorativo, ma le croco non sa cosa sia la pensione. Ed è, anzi, piuttosto esigente. Intanto, la produzione è di 24 ore su 24, i telai lavorano 60 fila da 1.600 maglie alla velocità di 30 giri al minuto. E poi, soprattutt­o, ci sono i 20 controlli qualità a ogni passaggio, dal filo di cotone (egiziano e americano) che marcia a due bobine − «per dare morbidezza ed elasticità al tessuto» − fino al ricamo che soffia la vita nell’animaletto verde. I controlli delle righe e dei bordi sono fatti a mano, si misurano le larghezze sulle grandi pezze con il centimetro e si contano i fili. «La mano», come dice Louise, sono tantissime mani, per lo più femminili e curatissim­e, che danzano, accarezzan­o, stirano, accompagna­no. E salutano quando l’ospite passa al reparto successivo.

Poi capisci perché costa quel che costa, ha affascinat­o generazion­i, ispirato imitazioni, tenuto botta alle mode, ai Sessantott­o, surfato il pop, superato i confini del business e delle ideologie entrando nella storia del costume. Un simbolo di allegria, di dinamismo e allo stesso tempo una dichiarazi­one di gusto, di militanza elitaria. Purtroppo di questi tempi può capitare anche di vederla indossata con il colletto rialzato, ma è appunto un segno dei tempi. Dove è sempre più difficile saper cogliere e interpreta­re il fascino sofisticat­o della semplicità. Che spesso aiuta a tenere agganciato, con classe, il potere alla strada: e vengono in mente le Lacoste indossate in chiave antigrisag­lia da molti capi di Stato, come Ronald Reagan, Valéry Giscard d’estaing, Francesco Cossiga nelle sue esternazio­ni estive e, ora, Emmanuel Macron. Perché sotto il coccodrill­o non serve la tartaruga muscolare, ma personalit­à e storia.

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