Valtteri Bottas
Molto più che una polo: un simbolo di libertà. Nella fabbrica L ACOST E di Troyes tra alchimisti, telai, bobine di lati e pezze di petit piqué. Per capire lo spirito di un pezzo cult dello stile maschile made in France. Che certe lacrime non ha mai pensa
Sembrava una seconda scelta, invece è il primo della classe
I colori, tutt’a un tratto viene in mente che è forse nei colori che sta il segreto. Difatti qui hanno l’aria di voler nascondere qualcosa, indossano il camice bianco, si muovono tra gli alambicchi con circospezione. Gentili, ma non saranno un po’ reticenti? Raccontano che ci vogliono circa due mesi per rispedire a Parigi il nuovo colore “sviluppato” e che lo testano contro la luce del sole, il sudore, i lavaggi sbagliati. Mostrano tranquillamente le nuove tinte a cui stanno lavorando per il prossimo anno, c’è anche una tonalità cipria che deve essere proprio una gran novità.
Il pensiero, qui a Troyes, tra gli alchimisti della madre di tutte le fabbriche Lacoste, va indietro di un bel po’ di anni, quando la gamma di colori era limitata come le lire per comprarle. Tra gli amici del liceo circolava la voce che si potesse personalizzare la maglietta con una misura precisa di candeggina, e difatti alle feste vedevi risultati stupefacenti, dal blu nasceva un turchese impareggiabile, da un beige ecco un rosa dai sapori antichi. Rivisitazioni d’artista, altrimenti il dosaggio sbagliato poteva essere disperante, ed erano lacrime da coccodrillo.
La circospezione del laboratorio, in realtà, rivela subito soltanto discrezione. Quella sì ingrediente segreto e irripetibile d’un marchio che ha fatto dell’antiarroganza il suo colpo di classe vincente, implacabile quanto il rovescio di René Lacoste, il fondatore e grande campione di tennis, uno dei quattro “moschettieri” francesi che, tra il 1927 e il 1932, umiliarono gli americani conquistando, appunto, due campionati d’america sull’erba, tre coppe Davis e due tornei di Wimbledon. I suoi compagni si chiamavano Jean Borotra, Henri Cochet e Jacques Brugnon. René era stato soprannominato il “Coccodrillo”, perché una volta azzannati gli avversari non li mollava più, ma prima usava modi modesti e rispettosi. E dopo averli stesi annotava su un taccuino nero le loro qualità.
Fa un certo effetto trovarsi nel luogo dove è nata una delle formule che hanno cambiato l’estetica maschile, perché Lacoste nel Novecento è stato per lo stile dell’uomo sportivo quello che Albert Einstein è stato per la fisica: c’è un prima e un dopo questa maglietta tanto semplice quanto sofisticata. La polo più indossata di sempre è sempre moderna e mai di moda; attraversa i tempi e i costumi senza lasciarsi scalfire; a quasi 85 anni di vita non mostra una ruga. Resta simbolo d’una eleganza sportiva pulita, discreta, soprattutto in un’epoca affollata di sponsor, ostentazioni e interessi. Una formula che, a differenza della Coca- Cola, non resta chiusa in un caveau in Svizzera. Si tratta di numeri che la signora Louise elenca con piacere, come se stesse rivelando la ricetta dell’andouillette de Troyes, la famosa salsiccia di trippa di porco delle Ardenne.
I colori, si diceva. Ebbene ora siamo nel reparto tinteggiatura (nello stabilimento i macchinari sono per lo più italiani e giapponesi): «Per il nero servono 10 chili di colore per cento chili di tessuto, mentre per gli altri colori bastano 10 grammi di pigmento. Ah, dimenticavo, sono prodotti appositamente in Svizzera e in Germania». Passa un ragazzo con un carrello delle pezze tinte: su un cartellino compare ancora il nome di André Gillier, l’imprenditore allora già affermato nel distretto del tessile dell’aube, il dipartimento di Troyes, e che divenne socio di René nel 1933 quando − per migliorare le prestazioni − portò il suo manifesto futurista sulla terra rossa.
«Voleva sbarazzarsi del blazer pesante e scomodo che s’usava allora in campo», spiega Louise. E creò, prima di tutto per se stesso, una maglia a maniche corte tricot che utilizza un cotone trasparente e più leggero, il celebre petit piqué. Il design rivoluzionario per una maglia, la libertà di movimento delle maniche corte, ma l’eleganza di una camicia nel colletto a coste. Quindi la volée del genio: il coccodrillo all’altezza del cuore. «Pour le tennis, le golf, la plage…», lo slogan dal gusto dannunziano. Infatti, se Novak Ðokovic´ è l’ultimo testimonial, il più dandy degli intellettuali fu il primo: a Gardone il poeta già nel 1935 indossava les crocos che arrivavano direttamente da Troyes per corriere. Poi calarono i panzer nazisti e René, raccontano in fabbrica, fece la sua partita. Quel crocodile rappresentava la Francia, un misto di République, Marianne, Napoleone e giustificato orgoglio storico. Proprio per questo motivo, quando i tedeschi invasero la Francia, Lacoste ordinò d’interrompere la produzione delle polo qui a Troyes: «Non voglio che un ufficiale delle SS o della Wehrmacht l’indossi».
Dei 12 milioni di pezzi venduti nel mondo, qui se ne producono solo 600 mila. Ma l’ad Thierry Guibert fa sapere che la quota del made in France, cioè Troyes, diventerà il simbolo della nuova primavera che sta vivendo il marchio sotto la sua gestione (oltre due miliardi di fatturato nel 2016, 1.400 boutique), ossia il valore aggiunto de l’élégance à la française.
Bisogna essere filosofi o temerari per decidere di mettere mano a un simile brand, come pensare d’intervenire nell’allure dello champagne. Ma a pensarci bene, Guibert sta lavorando proprio come un enologo: ha gradualmente spostato il marchio dal mondo lusso in cui era scivolato − «Il lusso ostenta e umilia», dice, «non è il nostro spirito» − e sappiamo come prosperano i ricavi in quella fascia. Ma nel contempo ha anche chiuso il 20 per cento dei punti vendita negli Usa, che andavano alla grande, per non inflazionare il marchio ed evitare la trappola del fashion.
Quindi: un tocco di casual per recuperare i giovani e, infine, una nuova iniezione di «francesità, cioè quel saper vivere raffinato che hanno i francesi quando non sono arroganti». In tre anni Lacoste, che in Italia è distribuita da
Dei 12 MILIONI di Lacoste vendute ogni anno nel mondo, ben 600 mila sono prodotte nel quartier generale di Troyes. E la quota del made in France è destinata ad aumentare, grazie al nuovo incremento di personale e macchinari
Colmar − investirà a Troyes tra i 3 e i 5 milioni. In parte per modernizzare i macchinari, anche se quelli pensati da René, come un certo aggeggio per le asole, restano a testimoniare la versatilità rinascimentale di questo tennista-artigiano, bricoleur fino all’ultimo nello scantinato di villa Lacostenia, sull’oceano, non lontano da Saint-jean-de-luz, in terra basca. Aveva sempre amato progettare e realizzare con le proprie mani gli oggetti più disparati. Aveva inventato il lanciapalle con cui si allenano i tennisti, la racchetta in acciaio venduta in sei milioni di esemplari in tutto il mondo, alcune mazze da golf, le tute sportive e anche alcuni strani congegni montati su aerei supersonici come il Concorde.
Gli investimenti del nuovo corso sono per lo più destinati al fattore umano, per continuare il progetto della Manufacturing Academy, inaugurata lo scorso marzo: un anno di formazione per dieci magliai, sette tintori e 12 confezionatori. Tra i settecento lavoratori è facile distinguere gli allievi addetti al tricotage, alla confezione o al taglio: indossano una polo nera e stanno sempre al fianco di un “anziano”. Seguono 399 ore di formazione per passare poi alle macchine. Retribuzione: 1.600 euro al mese.
«Mestieri complessi che si stanno perdendo», dice Louise. «Dobbiamo garantire la continuità, trasmettere la mano». Nello stabilimento, molti sono al capolinea lavorativo, ma le croco non sa cosa sia la pensione. Ed è, anzi, piuttosto esigente. Intanto, la produzione è di 24 ore su 24, i telai lavorano 60 fila da 1.600 maglie alla velocità di 30 giri al minuto. E poi, soprattutto, ci sono i 20 controlli qualità a ogni passaggio, dal filo di cotone (egiziano e americano) che marcia a due bobine − «per dare morbidezza ed elasticità al tessuto» − fino al ricamo che soffia la vita nell’animaletto verde. I controlli delle righe e dei bordi sono fatti a mano, si misurano le larghezze sulle grandi pezze con il centimetro e si contano i fili. «La mano», come dice Louise, sono tantissime mani, per lo più femminili e curatissime, che danzano, accarezzano, stirano, accompagnano. E salutano quando l’ospite passa al reparto successivo.
Poi capisci perché costa quel che costa, ha affascinato generazioni, ispirato imitazioni, tenuto botta alle mode, ai Sessantotto, surfato il pop, superato i confini del business e delle ideologie entrando nella storia del costume. Un simbolo di allegria, di dinamismo e allo stesso tempo una dichiarazione di gusto, di militanza elitaria. Purtroppo di questi tempi può capitare anche di vederla indossata con il colletto rialzato, ma è appunto un segno dei tempi. Dove è sempre più difficile saper cogliere e interpretare il fascino sofisticato della semplicità. Che spesso aiuta a tenere agganciato, con classe, il potere alla strada: e vengono in mente le Lacoste indossate in chiave antigrisaglia da molti capi di Stato, come Ronald Reagan, Valéry Giscard d’estaing, Francesco Cossiga nelle sue esternazioni estive e, ora, Emmanuel Macron. Perché sotto il coccodrillo non serve la tartaruga muscolare, ma personalità e storia.