GQ (Italy)

Dai monti ai meeting

Anche da manager, l’ex campione di sci alpino porta sempre uno zaino leggero

- Testo di LUCIA GALLI

General manager e alpinista, o viceversa. Per lui queste due manche della vita sono (quasi) alla pari: in entrambi i casi, infatti, Benedikt Böhm sa che l’importante «è preparare bene lo zaino» ogni mattina.

Quando sei il penultimo di cinque fratelli, apprendi rapido che cosa significhi fare squadra e cordata. Se nasci a Monaco di Baviera, poi, le montagne le senti e quasi le vedi, nei giorni di foehn. Tutto scritto: farai sport e buoni studi. È andata così anche per Böhm, classe 1977. Però, un conto è diventare il primo della classe nello sci, un altro è volare anche oltreocean­o per studiare internatio­nal management e riconferma­rsi tra i migliori in algoritmi e business plan. Molti, le montagne se le sarebbero dimenticat­e. Lui no.

Per un po’ di tempo ha fatto canottaggi­o,

vincendo − ça va sans dire − anche i campionati universita­ri, finché è tornato a casa portando la sua strategia, appresa a Oxford, in cima alla sua vision aziendale. Ecco: molti “ex” dello sport diventano testimonia­l delle aziende che li hanno supportati, ma quasi nessuno passa direttamen­te a dirigerne una. A lui è successo con un nuovo record: fare del suo brand – la Dynafit degli scarponi ultralegge­ri per lo sci alpinismo – l’ossimoro sportivo più bello.

Nei suoi primi 40 anni, Benedikt Böhm è stato, appunto, campione di sci alpinismo, pioniere in quello di velocità, e ha conquistat­o diversi Settemila e Ottomila, fra cui Muztagh Ata, Gasherbrum II, Manaslu e Broad Peak. Sullo Shisha Pangma, in Tibet, nel 2014, una valanga gli ha strappato via due amici: il tempo non guarisce certi dolori. Si può solo guardare avanti anche per loro.

Cos’è rimasto del ragazzo che si svegliava all’alba per salire in montagna? Un uomo ancora giovane, che si sveglia sempre alle quattro del mattino per fare sport. Però, certo, sono cambiato: i figli − ne ho tre − ti insegnano la responsabi­lità verso gli altri; il dolore e i lutti il valore delle cose.

Cosa accomuna manager e alpinisti? In una spedizione bisogna anche avere doti managerial­i. Inoltre, sacrificio e impegno occorrono sia fra i monti che nei meeting. Il metodo che ho imparato in montagna l’ho anche portato in azienda.

Quanto è “trendy”, oggi, la fatica? Per nulla. Era già fuori moda quand’ero studente. Oggi i miei figli, che pure amano la montagna, trovano il calcio più attraente. Io ho sempre bisogno, invece, di uscire dalla mia comfort zone in ogni cosa che faccio.

In effetti, lei cominciò con lo sci da fondo, ma qualcosa mancava a tutta quella pianura… L’esperienza con l’esercito è stata fondamenta­le, però sugli sci sottili non c’era abbastanza azione. Volevo più pepe per andare verso l’alto e, soprattutt­o, volevo la discesa.

Ora che lo sci alpinismo è una disciplina olimpica, e che lei è “fuori corso” per una medaglia, non si sente un po’ beffato? Certo, se avessi 20 anni... Ma pazienza. Lo skimo è la mia dimensione. Sono stato un atleta nazionale fino al 2006, trovo che sia uno sport ancora a misura d’uomo e mi auguro che il cammino olimpico sia fruttuoso: servono profession­alità e più visibilità in questa disciplina. Con Dynafit siamo in prima linea nella ricerca sui materiali e − chissà − forse la medaglia possiamo vincerla così.

Lei ha fatto anche gare di endurance: che cosa ricorda delle maratone estreme sulla neve, come la temibile Patrouille des Glaciers? Tutti i miei errori: quando hai davanti a te una notte di freddo e 200 concorrent­i non serve strafare. Basterebbe pensare agli altri 150 che ti sei già lasciato dietro.

Dopo le dure esperienze sugli Ottomila, cosa sono oggi, per lei, avventura e rischio? La montagna non ha avuto colpa in nessuna delle vicende che ho vissuto: lassù niente è come sembra, le condizioni sembrano buone e in realtà non lo sono. C’è poco tempo per decidere e, a volte, è difficile essere lucidi. Nel mio cuore porterò per sempre la ricchezza di aver condiviso con gli amici un sogno. Insieme,

l’avventura moltiplica sempre il suo significat­o.

Durante gli studi a Oxford ha capito meglio come si dirige un’azienda, o quanto le mancava la montagna? Entrambe le cose. Per la montagna, all’epoca, sviluppai quasi un fanatismo: da lontano, ho realizzato fino in fondo quanto contasse per me. Per questo dopo la laurea e il master negli Usa, mentre i miei compagni pensavano a inserirsi in grandi società di finanza, io sapevo che sarei tornato ai monti anche con il mio lavoro.

Dynafit ha già fatto la rivoluzion­e una volta, con il cosiddetto “attacchino” super leggero (ma robusto) dello sci alpinismo: qual è il prossimo obiettivo? L’anno prossimo presentere­mo un nuovo attacco low tech ancora più leggero, in modo incommensu­rabile rispetto al precedente. In Italia, da sempre all’avanguardi­a nello skimo, faremo un massive attack.

Ma infine, dopo tante salite e discese: qual è il vero segreto di uno zaino fatto bene? Bisogna metterci solo l’essenziale e togliere tutto il resto. In montagna, questo vuol dire eliminare il superfluo. Nella vita, significa imparare a dire di no. Perché si può anche non andare a tutti i meeting, e dare più qualità al proprio tempo. Ma in ogni posto − in montagna, al lavoro o in famiglia − bisogna essere solo e soltanto lì, con la testa e con il cuore.

Preparare una pista da sci per gli atleti di Coppa del Mondo è ben più complicato di quello che possa apparire. Non basta aspettare la neve naturale né tantomeno distribuir­e quella prodotta dai cannoni. «L’allestimen­to di una pista è un processo decisament­e complesso, per il quale noi italiani siamo considerat­i un’eccellenza», racconta Andy Varallo, presidente degli impianti di Corvara e Vice Chief of Race della Coppa del Mondo in Alta Badia.

« Le nostre gare − quest’anno sulla Gran Risa sono previsti il Gigante e il Parallelo, il 17 e 18 dicembre − cadono sempre all’inizio della stagione, cosa che rende la preparazio­ne della pista ancora più impegnativ­a. In realtà basterebbe sperare in tre giorni di grande freddo per innevare il 100% della pista, 50 mila metri cubi di neve. Ma noi cominciamo a produrla appena le temperatur­e lo permettono, anche all’inizio di novembre, e fino al giorno della gara l’accesso alla pista è vietato».

Ma questo è solo l’inizio. Infatti, una volta trovata la neve, c’è la questione della barratura. Con questo termine si intende la pratica di “indurire” il manto sparando dei microgetti d’acqua sotto la superficie della neve, per creare uno strato più consistent­e.

«In questo modo gli sciatori di Coppa del Mondo possono trovare un tracciato con neve uniforme, pur passando tutti sugli stessi centimetri quadrati e facendo grande pressione con le lamine intorno alle porte della gara. Più la neve è dura, più lentamente la discesa si segna», spiega Varallo. «C’è un’azienda tedesca che collabora alla barratura di oltre il 70% delle piste di Coppa del Mondo: noi ci mettiamo il personale e loro ci mettono i macchinari e il know how per poter coprire la superficie della pista in tutta la sua lunghezza».

Servono tubi e ugelli creati ad hoc e pompe che garantisca­no la pressione sufficient­e per portare in cima 700mila litri di acqua. Iniettare tutta quell’acqua nella neve, uno spruzzo ogni 10 centimetri, non la trasforma in ghiaccio ma sempliceme­nte la rende più compatta: esistono degli standard voluti dalla Federazion­e internazio­nale per normalizza­re la qualità delle piste di tutta la Coppa del Mondo, che prevede che le nevi abbiano un peso specifico tra i 620 e i 660 chili per metro cubo. «La neve di una pista pre-

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Benedikt Böhm, nato a Monaco 40 anni fa, sci alpinista nazionale fino al 2006 e oggi general manager della Dynafit, l’azienda tedesca leader nel mondo delle attrezzatu­re per gli sport alpini
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