Il diavolo ha fatto il ponte...
Ma è il bilionario Samih Sawiris che ha trasformato un’ex base militare nel resort più glam della Svizzera
Fu così che si scomodò il diavolo in persona, per costruire il ponte. Che poi gli fu intitolato. Cose da dodicesimo secolo. Ma la forra del fiume Reuss, quella è vera: profonda, gelata e fa paura. Il ponte la valica e permetteva di attraversare il massiccio del San Gottardo (dal 1980 c’è un tunnel che collega il Ticino con il Canton di Uri), entrando poi ad Andermatt. Dove sta sorgendo la stazione svizzera che rivaleggerà con Sankt Moritz, Crans-montana e Gstaad per qualità di servizi, ospitalità, prezzi e accessibilità (da Milano si arriva in un paio d’ore di autostrada. Meno di un’ora e mezza da Zurigo), fino al 2000 c’era un clima da Guerra Fredda. Per Andermatt si aggiravano soprattutto uomini in mimetica della fanteria di montagna. Che apparivano e scomparivano. A volte nella grande caserma e a volte in bunker, tunnel scavati nella roccia, depositi invisibili, palestre per esercitazioni di personale dei servizi segreti. Andermatt, per la sua posizione, è sempre stata considerata un crocevia strategico difensivo tra la Svizzera e il Nord Italia, ai piedi del Gemsstock. Cima delle Alpi Lepontine dalla quale si scapicollava giù il campione del mondo e medaglia d’oro olimpica di discesa libera Bernhard Russi. Ogni tanto lo fa ancora, lungo la pista nera che ora porta il suo nome.
Il progetto di rinascita di Andermatt è iniziato nel 2009, quando è stato chiaro che 1,8 miliardi di franchi svizzeri avrebbero arricchito la valle di Orsera. E altri 130 milioni (48 dei quali di denaro pubblico) sarebbero serviti per costruire, una tappa dopo l’altra, la Skiarena Andermatt-sedrun per tracciare 120 chilometri di piste.
La storia si ripete, ma fino a un certo punto. Se nel 1872 c’era il Grand Hotel Bellevue a fare da cattedrale in mezzo alla neve per facoltosi viaggiatori in cerca di aria buona, sulle macerie di quel rudere nel dicembre 2013 è stato inaugurato The Chedi, hotel di super lusso, disegnato da Jean-michel Gathy. Ma era chiaro da subito che sarebbe stato solo il primo passo per l’investitore Samih Sawiris. È lui, magnate delle costruzioni, capo di Orascom Development, con interessi in Egitto e Montenegro, a presiedere il consiglio di amministrazione di Andermatt Swiss Alps AG, che ha già iniettato nel progetto 800 milioni di franchi.
Quest’inverno verrà inaugurata una nuova gondola e due seggiovie che porteranno gli sciatori verso le cime di Oberalppass, scenario mozzafiato per gli amanti dello sci alpinismo e del freeride. Per il rientro in paese si userà ancora il trenino. Ma dalla prossima stagione il lavoro sarà affidato a un’ulteriore nuova gondola. Inoltre, nella Skiarena Andermatt-sedrun si scierà sette
mesi l’anno: da novembre fino a maggio, grazie all’innevamento artificiale e allo snowfarming. E i primi risultati non si sono fatti attendere. L’inverno 2016-17 il numero di notti in albergo trascorse da turisti è cresciuto dell’8,8% e i giorni sciati del 10%. Ma il grosso dei lavori riguarda proprio l’accoglienza del villaggio turistico Andermatt Reuss. Nell’estate 2018 sarà inagurato il nuovo quattro stelle Radisson Blu, con vista sul campo da golf a 18 buche che è già una realtà. Il 60% dei 500 appartamenti nei 42 nuovi condomini previsti dal progetto è aperto. Così come un paio delle 25 ville esclusive da 300 metri quadrati, realizzate in pietra con impatto ambientale zero e vendute a 5,2 milioni di franchi l’una. In arrivo il centro congressi e la grande piscina.
La caratteristica di Andermatt sarà quella di miscelare diverse tipologie di clienti. I paperoni che si sono potuti permettere di acquistare le 12 penthouse del The Chedi a 3,4 milioni di franchi l’una e un turismo selezionato, ma di massa, più attento alle politiche di prezzo. Per esempio a quella de- gli skipass, che nell’economia della famiglia sulle nevi − come insegnano i maestri del marketing dell’italiano Dolomiti Superski − fanno molto la differenza.
Dalla stagione invernale 2017/18, addio ai prezzi fissi. Ticketcorner, che già gestisce le politiche di prezzo per oltre 70 impianti di risalita svizzeri, lancia una piattaforma di prenotazione con tariffe flessibili degli skipass. Prima si prenota, più si risparmia. In un comprensorio che parte da 37 franchi (per gli adulti) e 13 franchi (per i bambini). I prezzi varieranno costantemente in funzione di fattori come stagione, giorno della settimana, condizioni meteo o data di prenotazione. Durante dieci giorni feriali nel mese di gennaio, per esempio, per lo skipass giornaliero si spenderanno appena 10 franchi. Quando quello del Corvatsch, il comprensorio dell’engadina più amato dagli italiani, ne costa 79.
Tutto questo cambierà lo scenario lunare, di intensa solitudine che si assapora solcando la neve di Andermatt? Probabile. Colpa, o merito, del diavolo Sawiris.
Perché rider più o meno famosi non vanno sulle selvagge vette dell’iran a filmare quelle acrobazie che vediamo tutti i giorni su Youtube e sui social? Eppure a nord di Teheran (che peraltro si trova su un altipiano a 1.200 metri di quota, la stessa di Cortina d’ampezzo), la catena degli Alborz concentra molte delle 200 cime sopra i 4.000 metri che si contano in tutto il Paese. In queste poche decine di chilometri tra la capitale e le coste del Mar Caspio, la neve arriva copiosa, con l’umidità del mare che viene frustata contro le montagne dalle correnti gelide che scendono dalla Russia. I Monti Zagros, più a sud, sono altrettanto imponenti ma hanno meno neve in virtù di una latitudine sahariana. Ebbene, gli addicted del fuoripista non vengono a sciare in Iran perché qui non esiste l’heliskiing (se non a costi proibitivi) e bisogna arrivare in cima sempre e soltanto con le pelli di foca e al costo di tanto sudore. E perché, una volta che si ha il timbro iraniano sul passaporto, non è più possibile entrare negli Stati Uniti: molti non si vogliono precludere la possibilità di andare in Alaska, il paradiso del
freeride, e non vogliono nemmeno essere costretti a rifare i documenti. Ecco che quindi fare freeride sugli Alborz rimane una faccenda per pochi sognatori coraggiosi. Bisogna dotarsi di permessi e di guide locali autorizzate e di tanta voglia di avventura. La vita quotidiana è fatta di trasferimenti a bordo di autobus sgangherati, strade coperte di neve che non verrà mai spazzata, e diventa un’esperienza che va oltre il piacere della neve. Sorprende un minareto che si staglia davanti a una cima innevata, o vedere gli anziani indossare moderni piumini sopra le tuniche tradizionali o un paio di sci larghi una spanna appoggiati al muro di un bazar che vende pashmine, tappeti e monili d’argento. A cena, carne speziata, hummus, tè sostituiscono piacevolmente i canederli con polenta e cervo. Il freeride in Iran non è solo natura selvaggia e può essere preso anche a piccole dosi, salendo in quota con gli impianti per poi scendere facilmente in fuoripista. Non sono tantissimi e non sono modernissimi ma tutti dignitosi, alcuni dei quali smontati dalle stazioni sciistiche italiane e rivenduti qui come “usato sicuro”. Il centro più noto è Dizin, voluto alla fine degli Anni 70 dall’allora Scià di Persia, che dista meno di un’ora da Teheran e conta una ventina di chilometri di piste battute. E poi ci sono Tochal e Shemshak, a ben 2.550 metri di altezza.
Da questi centri, frequentati dall’alta borghesia della capitale, è possibile altrimenti programmare uscite con le pelli di una giornata sulle cime dei dintorni.
Difficile invece trovare una guida locale capace e attrezzata: solitamente, si segnalano alla medesima le coordinate GPS del punto di partenza e di arrivo e ci si avventura da soli, dandosi un appuntamento approssimativo. Bisognerebbe usare solo satellitari precisissimi per non perdersi tra queste mille creste ripidissime, ma non mancano quelli che girano ancora con vecchie mappe sovietiche. I più coraggiosi invece partecipano a mini spedizioni lungo le pendici del Damavand, un vulcano spento di 5.600 metri, che durano anche diversi giorni, dormendo in rifugi lungo la strada e, più raramente, in tende che i muli portano fino a quota 3.000. La discesa dalla cima può durare anche un giorno intero.
Potrebbe vivere da protagonista in un sequel di Jack London. L’oro, però, non lo cercherebbe setacciando il Klondike palmo a palmo, ma dal cielo, sorvolando il fiume addormentato nel ghiaccio: Leighan Falley è diventata una bush pilot grazie al padre che, nell’allacciarle la cintura di sicurezza sul sedile posteriore del suo aereo, le diceva: «Tieniti forte, si vola». Lei ha seguito la scia paterna nei cieli dell’alaska e ha fatto di questa passione un lavoro. La sua storia piace anche al brand di moda Parajumpers.
«C’è una parte di Alaska comoda e poi c’è il resto, quello che ti permette di allontanarti da ogni frenesia: a me piacciono entrambe, ma ogni tanto ho bisogno di passare dall’una all’altra», racconta. E allora, Leighan vola. Base a Talkeetna, 180 chilometri da Anchorage, dove la sua giornata tipo non è quella di una lady americana. Il suo lavoro inizia «dove finiscono le strade»: Falley arriva in poche ore là dove in auto occorrono giorni. «Vola un’ora o cammina una settimana»: ecco la filosofia della Talkeetna Air Taxi, la compagnia aerea che dagli Anni Quaranta − oggi con una flotta di 10 velivoli − si occupa di voli estremi. Lei ci lavora da 13 anni: un giorno c’è da rifornire chi è rimasto isolato, un altro da accompagnare un alpinista o aiutare chi ha un problema. Spesso il suo arrivo è salutato con l’entusiasmo dei solitari, negli oceani, quando incrociano i grandi
cargo. Lei decolla, atterra, “risolve” e riparte. La chiamano il “corvo del Denali”, che è la montagna più alta del Paese, e non solo per le sue prodezze in aria. Leighan Falley, infatti, ha imparato presto anche a sciare e scalare. In su e in giù, fra le cime di questo antipasto dell’artico che è l’alaska.
Per il diploma, oltre 20 anni fa, si è regalata proprio una scalata al Denali, quota 6.190, che poi ha riconquistato altre sei volte in ben dodici spedizioni, stabilendo anche il record di due salite in meno di una settimana. L’amore per l’arrampicata l’ha portata anche sull’himalaya, ma è in Alaska che Leighan ama tornare. Perché è in Alaska che lei ha trovato l’oro.