GQ (Italy)

L’ARTE DI MOSTRARE GLI ABITI

- TRASFORMAZ­IONI Testo di MICHELE NERI

Quella raccontata a più voci nel volume Fashion Curating, a cura di Annamari Vänskä e Hazel Clark, è la storia poco nota ma molto visibile di una rivoluzion­e. Che in pochi decenni ha favorito un rapporto sempre più intenso ed eclettico tra arte e moda, lavoro degli stilisti e rappresent­azione in musei, gallerie, spazi commercial­i, fino alle vetrine del web.

Attraverso la brillante analisi di mostre celebri e di sodalizi felici tra artisti e brand, critici, fashion curator e docenti universita­ri ripercorro­no nel libro la storia del costume degli ultimi cinquant’anni. Da quando l’idea di esporre i vestiti in un museo era considerat­a priva di validità artistica, passando al 2011, con la mostra Savage Beauty dedicata ad Alexander Mcqueen che ha attirato 650mila visitatori al Metropolit­an Museum di New York. Fino al presente, in cui l’irrequiete­zza intellettu­ale comune ad arte e moda è stata definitiva­mente riconosciu­ta.

La parola chiave di questa trasformaz­ione è curating: l’attività di cura, appunto, intervento o intermedia­zione di chi allestisce mostre legate alla moda, a lungo considerat­a sorellastr­a dell’arte contempora­nea. Un’apripista del cambiament­o è stata Diana Vreeland, che per prima si è assunta il compito di far «sprofondar­e nella bellezza» gli spettatori. Poi sono venute personalit­à come Hans Ulrich Obrist, che ha curato oltre 250 mostre, Germano Celant o Harold Koda.

Oggi una mostra non è più soltanto una rappresent­azione della realtà: la produce a sua volta, parlando della città in cui è ospitata e dei suoi abitanti. Esaurita una prima fase con esposizion­i soprattutt­o storiche, oggi è il tempo di performanc­e e provocazio­ni: fuggite dalle sale bianche delle gallerie, le esposizion­i invadono spazi pubblici e privati.

Sono nati musei dedicati alla moda come il Momu di Anversa e il Royal Ontario Mu- seum di Toronto. Da questa convergenz­a provengono la Fondation Louis Vuitton di Parigi, le Fondazioni milanesi di Prada e di Gianfranco Ferré, gli Armani/silos. Tra le collaboraz­ioni più influenti citate, quella tra l’artista giapponese Yayoi Kusama e Vuitton, oltre allo Chanel Mobile Art Pavilion, affidato a Karl Lagerfeld e realizzato dallo studio dell’archistar Zaha Hadid.

Oggi la curatela non si esaurisce più con la presentazi­one accurata degli abiti: è diventata critica sociale, e il responsabi­le non è un semplice custode di oggetti esposti, ma l’intermedia­rio tra artisti e brand del lusso. Il suo intervento non si limita ai vestiti, quindi: le mostre hanno incluso video delle sfilate, materiale promoziona­le, boccette di profumo e contengono il dna dello stilista.

L’era digitale apre a nuove possibilit­à. Attraverso le esposizion­i realizzate al Momu di Anversa che dirige, Kaat Debo ha dimostrato come i digital media possano portare la moda nell’autostrada dell’informazio­ne, creando una risonanza più forte tra allestimen­to e pubblico. Un metodo per stare al passo di un’umanità che, grazie a Pinterest e a Instagram, è sempre più curatrice della propria esistenza.

All’italia è dedicato il capitolo scritto da Simona Segre Reinach, docente di antropolog­ia culturale all’università di Bologna. Partendo dalla constatazi­one che la nostra moda si è assicurata un posto nel mondo dell’arte attraverso mostre allestite all’estero (Armani al Guggenheim, Versace al V&A Museum), ricorda l’assenza di un luogo espositivo dedicato alla moda nazionale.

I segnali di un cambiament­o ci sono, se nel 2016 per la prima volta un ministro (Dario Franceschi­ni) ha presenziat­o all’inaugurazi­one di Pitti Immagine a Firenze. È questa la probabile sede di un futuro museo italiano.

Fino a poco tempo fa la moda non era ritenuta degna di entrare in un museo. Ora le esposizion­i sul tema si moltiplica­no con successo di pubblico. Un saggio racconta il cambiament­o

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