L’ARTE DI MOSTRARE GLI ABITI
Quella raccontata a più voci nel volume Fashion Curating, a cura di Annamari Vänskä e Hazel Clark, è la storia poco nota ma molto visibile di una rivoluzione. Che in pochi decenni ha favorito un rapporto sempre più intenso ed eclettico tra arte e moda, lavoro degli stilisti e rappresentazione in musei, gallerie, spazi commerciali, fino alle vetrine del web.
Attraverso la brillante analisi di mostre celebri e di sodalizi felici tra artisti e brand, critici, fashion curator e docenti universitari ripercorrono nel libro la storia del costume degli ultimi cinquant’anni. Da quando l’idea di esporre i vestiti in un museo era considerata priva di validità artistica, passando al 2011, con la mostra Savage Beauty dedicata ad Alexander Mcqueen che ha attirato 650mila visitatori al Metropolitan Museum di New York. Fino al presente, in cui l’irrequietezza intellettuale comune ad arte e moda è stata definitivamente riconosciuta.
La parola chiave di questa trasformazione è curating: l’attività di cura, appunto, intervento o intermediazione di chi allestisce mostre legate alla moda, a lungo considerata sorellastra dell’arte contemporanea. Un’apripista del cambiamento è stata Diana Vreeland, che per prima si è assunta il compito di far «sprofondare nella bellezza» gli spettatori. Poi sono venute personalità come Hans Ulrich Obrist, che ha curato oltre 250 mostre, Germano Celant o Harold Koda.
Oggi una mostra non è più soltanto una rappresentazione della realtà: la produce a sua volta, parlando della città in cui è ospitata e dei suoi abitanti. Esaurita una prima fase con esposizioni soprattutto storiche, oggi è il tempo di performance e provocazioni: fuggite dalle sale bianche delle gallerie, le esposizioni invadono spazi pubblici e privati.
Sono nati musei dedicati alla moda come il Momu di Anversa e il Royal Ontario Mu- seum di Toronto. Da questa convergenza provengono la Fondation Louis Vuitton di Parigi, le Fondazioni milanesi di Prada e di Gianfranco Ferré, gli Armani/silos. Tra le collaborazioni più influenti citate, quella tra l’artista giapponese Yayoi Kusama e Vuitton, oltre allo Chanel Mobile Art Pavilion, affidato a Karl Lagerfeld e realizzato dallo studio dell’archistar Zaha Hadid.
Oggi la curatela non si esaurisce più con la presentazione accurata degli abiti: è diventata critica sociale, e il responsabile non è un semplice custode di oggetti esposti, ma l’intermediario tra artisti e brand del lusso. Il suo intervento non si limita ai vestiti, quindi: le mostre hanno incluso video delle sfilate, materiale promozionale, boccette di profumo e contengono il dna dello stilista.
L’era digitale apre a nuove possibilità. Attraverso le esposizioni realizzate al Momu di Anversa che dirige, Kaat Debo ha dimostrato come i digital media possano portare la moda nell’autostrada dell’informazione, creando una risonanza più forte tra allestimento e pubblico. Un metodo per stare al passo di un’umanità che, grazie a Pinterest e a Instagram, è sempre più curatrice della propria esistenza.
All’italia è dedicato il capitolo scritto da Simona Segre Reinach, docente di antropologia culturale all’università di Bologna. Partendo dalla constatazione che la nostra moda si è assicurata un posto nel mondo dell’arte attraverso mostre allestite all’estero (Armani al Guggenheim, Versace al V&A Museum), ricorda l’assenza di un luogo espositivo dedicato alla moda nazionale.
I segnali di un cambiamento ci sono, se nel 2016 per la prima volta un ministro (Dario Franceschini) ha presenziato all’inaugurazione di Pitti Immagine a Firenze. È questa la probabile sede di un futuro museo italiano.
Fino a poco tempo fa la moda non era ritenuta degna di entrare in un museo. Ora le esposizioni sul tema si moltiplicano con successo di pubblico. Un saggio racconta il cambiamento