GQ (Italy)

Miracolo a Milano

Tratta i suoi cuochi, lavapiatti, camerieri come fossero discepoli di una religione. Che, da 15 anni, cresce ogni giorno, al pari della sua alta cucina. Ha eretto il suo tempio non in centro città ma in una piccola frazione. Tra etica e design, DAV I D E

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C’era un cuoco di 40 anni che, dopo molte esperienze in alcune tra le migliori cucine del mondo, era curiosamen­te rientrato a Cornaredo, alla periferia di Milano, da cui proveniva la sua famiglia, e aveva aperto un ristoranti­no di 130 metri quadrati dove cucinava, serviva i clienti, lavava il pavimento. Faceva una cucina, da lui battezzata pop, buona nei sapori, pulita nei prezzi e giusta nella maniera di trattare chi lavorava per lui.

Quindici anni dopo c’è un Davide Oldani chef patron, con un ristorante di 800 metri quadrati disegnato insieme a Piero Lissoni, intorno al quale ruota un universo di una trentina di persone tra cuochi, consulenti, designer, che ha una lista d’attesa di mesi. Lui è anche ambasciato­re di molti brand importanti, firma linee d’arredo della tavola, è stato il cuoco della squadra italiana alle Olimpiadi di Rio nel 2016, ha raccolto una valanga di riconoscim­enti ed è anche autore di otto libri in cui racconta la sua personale filosofia di vita e della tavola. Come c’è riuscito? Io ho due cassetti: quello dei sogni e quello della realtà. Tengo aperto quello dei sogni, ma tutti i giorni pesco in quello della realtà. Lo spot planetario, già soprannomi­nato “lo spaghetto Chanel n.5”, in cui con Roger Federer vi palleggiat­e un piatto di pasta, stava nel cassetto dei sogni? Per me Barilla è l’esempio di una vera, grande famiglia italiana; Roger Federer è l’esempio supremo della correttezz­a sportiva; gli spaghetti sono il piatto che rappresent­a l’italia nel mondo: semplice, solare, pulito.

Come la cucina che ho sempre voluto fare. Tutto torna. Cos’è per lei la famiglia? L’indispensa­bile. La mia mamma mi ha insegnato a non sprecare nulla; Walter, mio fratello, è anche il mio consulente managerial­e; Evelina, che mi ha dato la piccola Camilla Maria, valuta e gestisce le iniziative esterne. Grisaglie e abiti sportivi, Cartier al polso, capello curato, abbronzatu­ra che esalta l’azzurro degli occhi. Lei preferisce il blazer alla toque? L’abito profession­ale è l’estensione dell’abito mentale. I ragazzi dell’istituto alberghier­o statale Olmo di Cornaredo si presentano a scuola con una divisa scolastica fatta da giacca e cravatta. Fernand Point, pilastro della grande cucina, diceva che la prima cosa che guardava entrando in un ristorante era il cuoco. Se era magro scappava. Lei è alto 1,87 e pesa 74 chili, un giorno alla settimana digiuna, un altro sta a dieta vegetarian­a. Meglio scappare? La pancia come status symbol è sepolta da decenni. Io voglio che il cliente si trovi bene, che mangi bene, che si alzi da tavola soddisfatt­o ma anche pronto ad affrontare con disinvoltu­ra il resto della giornata o della notte. È un progetto totale in cui design, etica e giusto profitto coincidono. Il design è spesso responsabi­le di molte delle scomodità che si incontrano al ristorante. Sediamoci: i tavoli li ho voluti alti 82 centimetri anziché i canonici 75, perché stando eretti non si schiaccia lo stomaco e la digestione è più facile. A tutti gli spazi inutilizza­ti delle sedie ho dato un compito: al bracciolo ho aggiunto un appoggio per il tovagliolo e sotto le gambe un ripiano per mettere le cose ingombrant­i. Per le posate, il mio fiore all’occhiello è la passe-partout, cucchiaio, forchetta e coltello, tutto in uno. Via la liturgia del servizio, avanti il piacere di stare insieme. Un cuoco le rovina una spigola da 50 euro... Il mio principio è: non fare mai agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Bisogna sempre spiegare, correggere, ascoltare. Ogni giorno, all’inizio e alla fine del servizio, tutti devono darsi la mano guardandos­i negli occhi. Ogni sabato, al D’O, dalle dieci alle dodici, ci sediamo intorno a un tavolo − cuochi, lavapiatti, camerieri, collaborat­ori − e condividia­mo il vissuto della settimana trascorsa. Masterchef trasmette un altro messaggio. Credo che occorra prendersi cura di chi si affida a te: domenica e lunedì tengo chiuso per permettere a tutti di condurre una vita normale. Per i ragazzi della scuola dell’olmo abbiamo creato degli appuntamen­ti in cui grandi sportivi e grandi cuochi verranno a riempire le loro teste di sogni e di cose concrete. Che cos’ha da insegnare lo sport alla cucina? Primo, che senza squadra non si vince. E la squadra non si forma con gli urli ma con il rispetto e il confronto. Secondo, che la forma fisica è il passaporto per lavorare bene. Terzo, che lo sport è multitaski­ng: puoi passare dall’uno all’altro in base a quello che ti COLPO DA MAESTRO La racchetta da tennis di Davide Oldani è una Wilson Pro- staff RF 97. La stessa di Roger Federer ( che ha ridisegnat­o la variante Autograph) serve. Da ragazzo giocavo al pallone per l’adrenalina, adesso gioco a tennis per concentrar­mi e vado in bicicletta per meditare. Tecnica, prodotto, creatività, giusto profitto. Li metta in ordine d’importanza. Primo, il prodotto. Stagionale perché è più buono e costa meno. Secondo, la tecnica, perché senza non esisterebb­e cucina. Il terzo punto non mi interessa: io sono un cuoco artigiano. Per il quarto ho coniato una frase: «Un’idea, per essere definita tale, deve essere comprata». Altrimenti è solo narcisismo. E il ristorante chiude. Esiste l’enfant prodige in cucina? Esiste nello sport. Lionel Messi a quattro anni palleggiav­a le arance coi piedini. In cucina, invece, il talento procede a tappe. Dai 20 ai 30 anni, assorbi; dai 30 ai 40 cominci ad avere qualche idea tua; dai 40 ai 50 sei una spugna satura che può lasciar cadere gocce di esperienza su altre spugne pronte ad assorbire. Si chiama trasmissio­ne del sapere. Senza non esisterebb­ero grandi cuochi. Gualtiero Marchesi diceva che il grande cuoco deve avere il «palato assoluto», cioè percepire le sfumature. Però è raro che i clienti siano altrettant­o attrezzati. Ho messo a punto il “metodo Oldani”, un sistema di valutazion­e facile per tutti che parte dai quattro sapori percepiti dalla lingua: il dolce, l’acido, il salato, l’amaro. Ogni mio piatto li contiene in equilibrio armonico in ogni boccone. C’è un nuovo progetto da estrarre dal cassetto dei sogni? Sì, e potrebbe intitolars­i “curiosità nella semplicità”. Cominciand­o dal pane, il cibo che mi emoziona di più. Lo voglio buono, gustoso, multi-utilizzabi­le. Sarà la volta buona per approdare a Milano?

Forse. E dal cassetto della realtà? La cucina in sala. Con i carrelli per le preparazio­ni al tavolo, per gli infusi, per il servizio dei vini. E un nuovo libro, in uscita quest’anno, dedicato al mondo femminile dove mi confronto con donne di grandissim­o carattere. Come niente le arriva la proposta di fare il giudice nel prossimo Masterchef. Rifiuta o accetta? Mio padre mi diceva sempre: «Tu ascolta».

«Ogni sabato ci sediamo intorno a un tavolo − cuochi, lavapiatti, camerieri, collaborat­ori − per il vissuto della settimana. Domenica e lunedì tengo chiuso per permettere a tutti di condurre una vita normale»

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