GQ (Italy)

Henry Cavill

L’elogio della gentilezza

- Testo di LUCA DINI Ritratti di MICHELANGE­LO DI BATTISTA Servizio di ANDREA TENERANI

Il baffo non c’è più: è la prima cosa che noto quando si siede davanti a me, nello studio di Milano dove ha posato. Gli ha detto addio proprio oggi, per le foto che state guardando. Quando rientrerò in redazione vedrò il divertente post Instagram dove si mostra, per la prima volta da un anno, a volto glabro, assicura che non è un effetto speciale, e introduce con una musica emozionale e la scritta Shaved but not forgotten (“rasato ma non dimenticat­o”) una gallery finto-commovente di ricordi baffuti.

Henry Cavill ha una doppia modalità di comunicazi­one. Superserio nell’intervista, come quando sta salvando l’umanità fasciato nella tuta da Superman che l’ha reso famoso. Sorprenden­temente (per un divo) autoironic­o sui social media, dove posa con improbabil­i cappellini per portare fortuna alla Nazionale inglese di rugby, per la Festa della donna porge una rosa abbracciat­o al gigantesco e inseparabi­le cane akita Kal − da Kal-el, il nome kryptonian­o di Clark Kent − con cui divide la sua vita da neosingle, si veste da Tigro per il Durrell Wildlife Conservati­on Trust (vedi sotto), scherza su Google che qualche giorno fa l’ha dato per morto. E trasforma appunto il baffo in una star a proprio titolo, arrivando a fargli firmare un post in cui si rammarica di non avere gli occhi per vedere la finale del Super Bowl. Il baffo, se è scomparso − per ora − nella vita reale, ha un’extension di esistenza al cinema, dove lo vedremo la prossima estate in Mission: Impossible - Fallout, sesto episodio della saga di Ethan Hunt/tom Cruise, e (completo di barba) nel thriller Nomis.

Difficile crederci a guardarlo adesso, scolpito come un’action figure, ma quando uscì il primo Mission: Impossible, nel 1996, Henry era un tredicenne cicciottel­lo e bullizzato: quell’esperienza ha una parte importante nella sua idea di che cosa significhi, oggi, essere un gentiluomo.

«Sono cresciuto nell’isola di Jersey, nella Manica», racconta. «Un posto splendido, una specie di paradiso di eterne vacanze: quando ci torno e scendo dall’aereo e respiro il mare − una parte della mia famiglia vive ancora là − è sempre bellissimo. Ma è piccolo, isolato, e se da bambino ci stai benissimo man mano che cresci ti va sempre più stretto. A dodici anni ero pronto per andare in Inghilterr­a in collegio: non sapevo

«Non mi immischio nelle cose personali degli altri, ma c’è sempre un modo di lanciare un’offerta di aiuto, un “se hai bisogno ci sono”. Io cerco di vivere così»

cosa mi aspettava. Ero sovrappeso, e i ragazzini possono essere cattivi. O meglio, non è giusto dire cattivi: stanno mettendo alla prova loro stessi e gli altri, i loro limiti, il proprio posto nel mondo. Rimossi i genitori dall’equazione, può rimanere un piccolo eroe o un piccolo mostro. Non è stato un bel periodo. Il mio supereroe, in quella situazione, è stata mia madre, che ha saputo darmi l’amore più difficile, quello del distacco. “Se continui a chiamare tre-quattro volte al giorno, non ne uscirai mai”, mi ha detto un pomeriggio, e posso immaginare quanto le sia costato, “devi farti forte, e affrontare questa cosa da solo”. E poi ci sono stati tanti eroi minori, i compagni di classe, o quelli più grandi, che ti sorridono quando non avrebbero nessun dovere di farlo, che ti chiedono se è tutto ok, sembra un niente ma in quel momento invece è tantissimo».

Henry non ha dimenticat­o. «Cammini per strada e vedi una persona che piange, ovviamente non sai perché, ma se intercetti il suo sguardo e accenni un sorriso puoi rendere magari la sua vita un po’ meno cupa, regalare un istante di speranza. Mi faccio gli affari miei chiarament­e, non mi immischio nelle cose personali degli altri, ma c’è un modo di lanciare un’offerta di aiuto, un “se hai bisogno io ci sono”. Io cerco di vivere così».

C’è, in lui, una bella combinazio­ne di modernità e valori all’antica. Per esempio, l’attaccamen­to all’idea di patria come qualcosa da difendere. Una delle sue principali attività di beneficenz­a è a favore dei veterani dei Royal Marines, come uno dei suoi tre fratelli, medaglia al valore per azioni in Iraq e Afghanista­n. «In realtà avrei voluto arruolarmi, e stavo per farlo quando sono stato risucchiat­o nell’avventura della recitazion­e. Nei casting però continuava­no a dirmi che avevo potenziale, ma non mi davano le parti perché non ero ancora famoso − una specie di cane che si morde la coda ( Robert Pattinson gli soffiò prima la parte di Cedric Diggory in Harry Potter, poi quella di Edward Cullen in Twilight, ndr). A un certo punto mi sono detto: basta, finisco le scuole superiori da privatista e mi arruolo. Proprio in quel periodo mi hanno provinato per James Bond. Alla fine hanno preso Daniel Craig, ma il fatto che fossi stato in lizza ha cambiato tutto. La mia carriera è finalmente decollata. Ancora oggi, quando incontro mio fratello e i miei amici che si sono arruolati, penso che mi spiace non aver potuto fare il mio dovere − proteggere quelli che amo. La cosa buona è che ho la possibilit­à, grazie alla mia carriera, di proteggere quelli che proteggono, di dare loro una vita migliore quando tornano a casa».

Questo, per capire il tipo, è un uomo che si è profusamen­te scusato per un’erezione. Gli è successo girando una scena d’amore nella serie I Tudors: benché non l’avesse certo fatto apposta, si è coperto il capo di cenere davanti all’attrice per il proprio «comportame­nto inaccettab­ile». Ed è anche un uomo che non andrebbe mai senza smoking a un evento black tie: «Vestirsi in modo appropriat­o è un segno di rispetto verso l’occasione, verso l’ospite, verso l’evento, verso la persona che si va a incontrare».

Di Mission: Impossible, dice che il suo personaggi­o è un agente della Cia che Ethan Hunt si trova fra i piedi, e che «sul set ogni tanto mi davo un pizzicotto e mi dicevo: cavolo, ma questo è Tom Cruise, sono cresciuto guardando i suoi film, era una star prima che io nascessi. Se mi avessero detto da ragazzo che avrei fatto un Mission: Impossible con lui, mi sarei messo a ridere». Di Nomis può dire solo che è una storia di donne rapite, e che lui è un cacciatore di criminali a cui tutto nella vita va storto. Inutile tentare di estorcergl­i di più. Preferisce parlare dei suoi hobby: la moto (ha una Ducati spettacola­re) e il jiu jitsu brasiliano che pratica ogni volta che può alla leggendari­a Roger Gracie Academy «perché quando combatti a terra devi concentrar­ti su quello, e così per un’ora o due non c’è lavoro o stress, solo jiu jitsu».

Ancora più facile farlo chiacchier­are dell’attività che svolge per il Durrell Wildlife Conservati­on Trust, e del perché sarebbe molto più utile scandalizz­arsi sui social media per il destino dei rinoceront­i che per il nome di Leone, il figlio di Chiara Ferragni. «Giorni fa è morto l’ultimo maschio di rinoceront­e settentrio­nale bianco: si chiamava Sudan. Significa che non ci saranno più, in natura, nascite di questa specie. La cosa incredibil­e è che sapevamo che stava per succedere − la bracconeri­a è alimentata dalla superstizi­one di chi crede che dal corno si ricavi una polvere che potenzia la virilità − e abbiamo cercato di impedirlo, ma è successo sotto ai nostri occhi. Mi adopero per continuare il lavoro di Gerald Durrell perché, oltre a essere come me dell’isola di Jersey, era un uomo straordina­rio. Lui si concentrav­a su quelli che chiamava “piccoli cosi marroni”, gli animali più piccoli, più anonimi, più sconosciut­i: se può sparire così un maestoso rinoceront­e, figurarsi quelle creature che nessuno considera. È facile distrarsi, concentrar­si su una celebrity, sugli abiti che indossa, sul nome che dà al suo bambino, e intanto dimentichi­amo che stiamo uccidendo il pianeta, e se uccidiamo il pianeta uccidiamo noi stessi».

Ma Superman farà tutto il possibile perché questo non accada.

«Credo che vestirsi in modo appropriat­o sia una dimostrazi­one di rispetto verso l’occasione, verso l’ospite, verso l’evento, verso la persona che si va a incontrare»

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MIGLIORE AMICO Chi segue Cavill su Instagram sa due cose: che il suo compagno di vita è il cane Kal; e che, dopo un anno, l’attore è senza baffi. Glieli aveva imposti, per contratto, Mission: Impossible 6

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