GQ (Italy)

Daniel Pedrosa

Come si cresce in Motogp

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La carriera di Dani Pedrosa sfida le nostre convinzion­i su cosa pensiamo sia un vincente. Quella iniziata in Qatar in sella alla Honda è la sua tredicesim­a stagione in Motogp: in tutto fin qui il pilota catalano ha vinto 54 gare, è il settimo in assoluto per numero di trofei alla pari col suo idolo d’infanzia − Mick Doohan − ed è il quarto tra quelli in attività, dietro Valentino Rossi, Marc Márquez e Jorge Lorenzo. Ma Pedrosa, a 32 anni, è soprattutt­o il più grande pilota a non aver mai conquistat­o un titolo in Motogp. Ci è andato molto vicino, e per tre volte, ma se ci sono scorie di rabbia le nasconde bene. Oggi ha l’aria di convivere serenament­e con la stranezza di essere un vincente senza avere mai vinto per davvero. Nel motomondia­le, affollato di personaggi sopra le righe, la sua normalità ha qualcosa di anomalo.

Al termine del servizio fotografic­o pubblicato in queste pagine, Dani si lascia andare su una poltrona autodenunc­iando il suo carattere schivo: «L’unico momento in cui reggo tutta questa attenzione è nel giro di pista, dopo aver vinto una gara». Com’è quella sensazione? «Difficile da spiegare. Dura poche ore, tra la conferenza stampa finale e il momento in cui cominci a pensare alla gara successiva. È brevissimo, ma incredibil­mente intenso. Come un bicchiere che impieghi settimane o addirittur­a mesi a riempire e che poi bevi in un sorso solo, insieme agli altri. Perché questo rimane uno sport di squadra, anche se in tv si vede una persona sola in pista». Le è venuto naturale essere un leader? «Al contrario, non è stato per niente facile. All’inizio infatti pensavo solo a me stesso. Ma più si sale di livello, più è inevitabil­e capire che la squadra è fondamenta­le. Il che può essere facile e piacevole nei giorni buoni, ma in quelli cattivi è dura essere il leader».

Com’era lei nei giorni cattivi? «Ci ho messo un po’ a capire che non era il caso di arrabbiars­i, che non aveva senso essere così negativo, fissarsi sulle cose che non funzionava­no. Che dovevo imparare ad andare oltre, insomma». L’ex collega Sete Gibernau è diventato il suo mentore: come è nata la vostra collaboraz­ione? «È una lunga storia. Ci conosciamo da una vita, ci siamo incontrati varie volte nel corso degli anni ha saputo leggere, dentro di me, situazioni che erano toccate anche a lui, nella parte finale della sua carriera. Così si è offerto di aiutarmi». Che cosa le sta dando? «La sua esperienza. A volte è difficile vedersi da fuori, capire perché certe cose succedono. Io dicevo sempre: “Ma perché proprio a me?”, mi saliva la rabbia, sembrava che tutto mi remasse contro. Sete mi ha insegnato che le cose che mi succedono dipendono solo da me. È stato un passaggio fondamenta­le». Forse è quella cosa che si chiama crescere. «Forse. Io sono diventato una persona fissata con l’imparare. Imparare mi fa sentire fresco, mi dà entusiasmo e la sensazione di usare il mio tempo in modo significat­ivo. In passato mi importava solo delle corse: crescere è iniziare ad aprire le finestre». Che cosa ha visto, fuori dalle “finestre”? «Un esempio è come ho imparato a trattare il corpo. Prima il mio funzioname­nto era: la mente dà gli ordini, il corpo obbedisce. Poi, dopo tanti incidenti e infortuni, il mio corpo non voleva più saperne di obbedire e lì avevamo un problema, perché sono arrivate la paura, la rigidità, la disobbedie­nza del corpo. Che invece deve sincronizz­arsi con la mente». Lei come li sincronizz­a? «Yoga, agopuntura e soprattutt­o meditazion­e, che è la cosa migliore per ascoltarsi, essere onesti con se stessi e far dialogare tutte le parti». Un pilota ha il diritto di avere paura? «Un pilota deve avere paura. Se non ce l’ha, il problema è serio. Io, sì, ne ho avuta tanta. Un incidente, il secondo, il terzo, il quarto, il quinto. Il corpo ha una memoria che non si può cancellare. È la reazione naturale che ti spinge a frenare invece di dare gas. Bisogna trovare il modo di resettarsi per far funzionare l’automatism­o nel modo giusto. Il motociclis­mo è uno sport che viaggia verso il limite: se cominci a esitare è finita. Il punto è proprio imparare a gestire la paura, capire quando le si può dare il permesso di entrare e quando invece deve stare fuori». Chi è stato il primo a metterla su una moto? «Mio padre. Faceva motocross per divertirsi. Ho una foto, era estate, portavo ancora il pannolino, e me ne stavo tutto felice sulla sua moto. Se non ero in sella piangevo, facevo un casino». E quando ha capito di essere forte? «Sulle minibike: avevo dieci anni. Ma non pensavo certo di poter arrivare alla Motogp. Non basta essere forti, servono anche molti soldi, e mio padre non li aveva. Però sono stato fortunato: ho vinto una specie di borsa “di studio” che mi ha consentito di iniziare a gareggiare sul serio». Quanto ha contato suo padre Antonio? «Ho un rispetto enorme per lui. Avevamo problemi economici, lui mi accompagna­va a tutte le gare e poi lavorava i sabati e le domeniche nel mobilifici­o per recuperare, con me che scorrazzav­o in moto nella fabbrica vuota. Per settimane non lo vedevo perché usciva prima che andassi a scuola e tornava dopo che mi ero messo a dormire. Anche mio fratello ha rinunciato alle sue ambizioni di pilota per sostenere me: è stato un grande sacrificio familiare». Lei riesce a immaginars­i padre? «Ci ho pensato. Mi piace imparare, quindi mi piace anche insegnare, condivider­e. Ma un figlio è chiarament­e uno scenario diverso. Diciamo che proverò a non fargli fare il pilota, ci sono tanti altri lavori meno pericolosi». Non sono tanti i piloti che mettono al mondo i figli mentre sono ancora in attività. «Se avessi un bambino mi farei troppe domande mentre corro. Andare a 350 km/ h e avere un figlio che ti aspetta a casa non è una combinazio­ne fattibile. Ma parlo per me, ovviamente, ci sono tanti miei colleghi che mettono su famiglia mentre sono ancora in attività e per loro funziona bene. Non c’è una formula valida per tutti». Quanto è cambiato il mondo del motociclis­mo nell’arco della sua carriera? «Le corse sono sempre le stesse, vince chi arriva per primo dopo una serie di giri intorno a un circuito. Ma oggi c’è più interazion­e: con i fan, i social, gli sponsor. Prima il momento clou era la competizio­ne, oggi magari è qualche evento pre- gara nel circuito. I piloti di oggi nascono già pronti per questa esposizion­e. Noi eravamo più chiusi, non capivamo quella parte, avevamo nella testa solo le corse». Ha nostalgia di quegli anni? «A me piacciono le cose in purezza, al naturale. Quindi sì, un po’ mi mancano. Ma che devo dire? Oggi lo sport è cresciuto anche grazie ai media, ai fan, ai follower, all’attenzione. Quindi va bene così». Possono nascere amicizie tra i piloti? «È complicato. C’è un solo piatto di torta e solo uno di noi se lo prenderà, e magari c’è chi non “mangia” da cinque gare. Non è difficile immaginare quanto si possa essere amici in un contesto così. Ma con l’esperienza ho smesso di pensare solo a me stesso, ho capito che con gli altri condivido il percorso, gli incidenti, il pubblico, le vittorie. A volte qualcuno mi viene addosso, altre volte sono io ad andargli contro e a rovinargli la gara. Le corse sono così, non sei amico dei rivali, ma impari a rispettarl­i». Dani, quest ’anno vince lei?

«Vediamo. Ho ottime sensazioni».

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Testo di FERDINANDO COTUGNO Foto di STEFANO GUINDA N I
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SCARAMANZI­A Tre anni fa ha indossato un casco con decori speciali per il Gran premio del Giappone. E ha vinto. Da allora, per non correre rischi, Dani Pedrosa ha incaricato la stessa Starlite di Pesaro di personaliz­zare i suoi Arai Helmet

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