Moreno Zani
I soldi, questione di famiglie
Moreno Zani racconta che nel 2010, quando decise di fondare Tendercapital, gli amici all’estero lo incoraggiarono così: «Non arrivi a fine anno». Invece all’anno successivo è arrivato e ha anche deciso, in piena crisi finanziaria, di investire in cultura − soprattutto in arte − con il progetto Tendertoart. Che per una società di asset management non è proprio una scelta scontata. Del resto Zani, 49enne «molto» milanese, a Londra per la sua società non ha cercato una sede nella City, bensì a Mayfair, il vero cuore della città – dove si riuniva il Bloomsbury di Virginia e Leonard Woolf e dove girano per locali i principi di Galles – ricchissimo di gallerie d’arte. Non a caso, una delle passioni di Zani è proprio l’arte contemporanea: «Abbiamo la sede in Brook Street, che purtroppo incrocia New Bond Street. La sera, quando esco dal lavoro, vedo quelle vetrine... Ogni tanto cedo e compro qualche opera per me».
Tendercapital, che oggi gestisce patrimoni per diversi miliardi di euro, ha uffici anche a Dublino, in Svizzera, e a breve aprirà in Francia. Ha pure una sede a Milano, a due passi dalla stazione Cadorna. Qui, sui muri e sugli scaffali ci sono le opere degli artisti che hanno partecipato ai progetti di Tender to Art. Prima di esporre i suoi prodotti finanziari, Zani mostra orgoglioso il loggiato cinquecentesco, che apparteneva a un convento di vergini spagnole. E il salone del Settecento dove aveva il suo ufficio niente meno che il maresciallo Radetzky. Perché lei, così milanese, ha fondato una società a Londra? Tutte le persone con cui ho condiviso il progetto, che mi hanno aiutato e che oggi sono i top manager dell’azienda, all’epoca lavoravano all’estero. Io venivo da un’esperienza di asset management in una grossa realtà internazionale francese. Era il 2010, un momento funesto, dopo la crisi di Lehman Brothers. Ma pensavo ci fosse spazio per una struttura media, o medio piccola – quelle che oggi si chiamano boutique – che facesse un lavoro su misura. Che cosa vuol dire «su misura»? Qualunque grosso investitore ha bisogno di un fondo che non sia standard. Quindi cerca una boutique che glielo costruisca secondo le sue esigenze specifiche. Questo è lo spazio che avevo intravisto nel mercato, una nicchia del settore ancora da occupare. Da dove viene il nome Tendercapital? Dalla mia passione per i cavalli, che ho da sempre. Facevo anche gare di salto a ostacoli con il mio Nontender, che oggi è invecchiato e ci fa da mascotte. Il nonno era un grande campione, Contender. Oggi Nontender sta a Parigi, nella nostra scuderia. Anch’io non sono più un ragazzino, quindi insieme facciamo solo ostacolini facili facili. Ecco, Nontender è un castrone, ma continua ad avere un piglio da stallone: è il re del maneggio. E poi la parola tender rimanda anche alla gentilezza, al tendere a qualcosa. Chi sono, esattamente, i suoi clienti? Fondazioni. E alcune grandi famiglie che nel mercato europeo avevano sempre più asset, gestiti però alla vecchia maniera. Insomma, il loro problema era la gestione dei beni e i relativi costi. Inoltre, nel passaggio generazionale c’era la possibilità di unire i patrimoni familiari sotto un unico cappello. Proprio nel 20102011 sono arrivate le prime direttive europee sui fondi alternativi: appena sono state approvate, noi siamo entrati subito in questo mercato. Alternativo significa anche etico? Si tratta di fondi che riguardano investimenti nelle energie alternative, appunto, nella sanità privata, anche nell’arte. All’epoca le società presenti in questi settori erano davvero poche. Noi avevamo il know how ed è andata bene, ci hanno seguiti molti investitori. Una parte del nostro lavoro resta comunque dedicato al retail, cioè alle persone “normali” che possono permettersi di correre meno rischi. Ma quali sono, esattamente, i settori alternativi? I cosiddetti Esg, investimenti sostenibili in acqua, agricoltura, robotica, medicina di base, eolico, fotovoltaico, big data, coding. Attività che possono portare grandi ritorni economici nel tempo, e che modificheranno il nostro stile di vita. Il primo investimento nei big data l’abbiamo fatto addirittura nel 2012, ma non perché siamo dei geni: negli obiettivi di investimento della comunità europea c’erano già, e noi siamo persone che studiano e si documentano. Nella finanza i geni non ci sono. E nel caso: sono pericolosi.
Qual è la filosofia della sua azienda? Semplicità, integrità, talento. Dove la semplicità è il presupposto: in generale, infatti, le cose sono semplici, siamo noi a complicarle, soprattutto nella finanza. Il nostro lavoro, come quello di tutti, è complesso nella gestione, per le regole e i rischi che corriamo, ma non quando si tratta di spiegare un investimento. Le crisi, gli squali, l’integrità della finanza... È un tema forte. Si dice che la storia insegni. Il nostro lavoro è particolare: indirettamente trattiamo soldi, che per definizione tendono a far fare quello che non si dovrebbe. È nella natura umana. Quindi l’integrità è fondamentale: noi tra l’altro siamo piccoli, il valore più importante da perdere sarebbe la reputazione. Perciò, quando vengono proposte certe operazioni che non si riescono a capire, dico: meglio rinunciare, è rischioso. Per minimizzare il rischio che qualcuno ceda alle tentazioni, l’anno scorso abbiamo fatto anche un grosso investimento in Information technology. Gli investimenti etici non sono anche un po’ una moda? Bisogna tradurre l’investimento in qualcosa di socialmente responsabile, come le energie alternative, che però deve fare reddito. Ma nel caso di coding, big data o intelligenza artificiale si tratta di ipotizzare il futuro, in ambiti che suscitano dubbi. L’investimento socialmente responsabile è perfetto, ci aiuta. Non è il mantra totale, ma di sicuro contribuisce a fare passi avanti nella tutela del mondo. E il talento? Alla fine del 2011, quando la società ha iniziato a svilupparsi, avevamo bisogno di comunicarlo all’esterno. L’idea più semplice sarebbe stata quella di utilizzare un testimonial. Invece abbiamo scelto di fare una cosa diversa: comunicare la società, mostrando il talento degli altri. Così è nato Tendertoart, un incubatore d’arte: non siamo galleristi, non lo facciamo per guadagnare, ma abbiamo messo un budget rilevante a disposizione di questo progetto. Perché sostenere l’arte? Per dare un’occasione a tanti giovani talenti. Per esempio con il progetto Io è Te, che ha messo insieme 19 artisti, famosi e non, tra Milano e Londra. Negli anni avete collaborato con Letizia Battaglia, David Lachapelle, Cesare Fullone, Mimmo Jodice, Sebastiano Mauri, Annalisa Riva, Antonio Marras... Abbiamo portato avanti l’idea di finanziare il talento, non solo dei giovani. Come contropartita, possiamo utilizzare le immagini delle opere e dei film − come il cortometraggio realizzato con Valeria Golino e Valeria Solarino − per comunicare la società. Non siamo uno sponsor. Partecipiamo al progetto, ci entriamo. Lo studiamo insieme con l’artista e ne seguiamo la realizzazione, passo dopo passo. Di recente abbiamo anche sostenuto la mostra di Frida Kahlo, al Mudec di Milano, per l’amicizia che ho con il curatore, Diego Sileo, e perché mi piace l’artista. Mi affascinava l’idea alla base dell’esposizione, oltre al fatto di realizzarla a Milano e di contribuire a portare fuori dal Messico due opere che prima non erano mai state viste altrove. Come mai avete scelto questo settore specifico? È una passione personale. Trattiamo solo arte contemporanea perché è quella che piace a me: è l’unica cosa in cui riesco a impormi in azienda. Molti artisti ci hanno lasciato le loro creazioni e ora sono esposte nei nostri uffici. È bello: ti giri e vedi le loro opere, vedi la storia di quello che è successo. Ci sono quadri, fotografie, e anche pezzi di cinema. Il progetto con Valeria Golino, nel 2015, è stato bellissimo: è nato da tre racconti, di tre scrittori diversi, poi diventati un cortometraggio. E a settembre sarete alla Mostra del cinema di Venezia. Abbiamo un progetto che sarà svelato al Lido. La regista è Martha Fiennes, sorella di Ralph: ha creato un’opera di videoarte, noi la produciamo e la protagonista sarà un’attrice molto famosa. Per noi è un progetto molto importante, anche perché dietro questo filone del moving image c’è un lavoro enorme di coding: lo trovo meraviglioso, è bello sperimentare cose nuove, che potranno diventare parte del nostro domani. Esistono anche fondi che investono nell’arte. Sì, ma su artisti che, secondo noi, potranno avere apprezzamenti negli anni. Tendertoart è un’altra cosa. Ed è anche un piccolo modo per ridistribuire le opportunità. Il ritorno è unicamente a livello di immagine, non di denaro. È molto bello partecipare al progetto, l’artista ti regala molto, umanamente. La finanza non deve essere autoreferenziale: deve prendere spunto da quello che avverte nella vita quotidiana, dal sudore della strada. E nel cinema, invece? Al Salone del risparmio, a Milano, portiamo un tipo di investimento alternativo che finora non è mai stato proposto al grande pubblico, ed è proprio nel cinema, attraverso il meccanismo del tax credit. Funziona così: uno finanzia la casa di produzione e, a fronte, ha un tax credit in percentuale sull’importo investito. Oltre a una serie di privilegi sugli incassi del film, come creditore. Insomma un doppio guadagno. Senza contare la bella citazione nei titoli di testa. Nel suo lavoro ha un modello?
Direi di no. Seguo il mio istinto. Prossimi obiettivi? Far crescere la società dove non siamo ancora presenti. E maturare una storia di successo italiano che valga la pena raccontare. Cavalli, finanza, arte, cinema, big data. Altre passioni?
I miei figli.
«Abbiamo deciso di finanziare il talento. Come contropartita, possiamo usare le opere degli artisti per COMUNICARE la società»