GQ (Italy)

SE UN CAPOLAVORO NASCE DAL FALLIMENTO

MILOVAN FARRONATO, curatore del Padiglione Italia alla prossima Biennale d’arte di Venezia, anticipa a GQ una mostra che dice no alla «dittatura del perfezioni­smo»

- Testo di GIOVANNI AUDIFFREDI Foto di MUSTAFA SABBAGH

«Ero un ragazzo socievole e introverso a fasi alterne. Umorale, forse». Un po’ come la nebbia che a Borgonovo Val Tidone, dove è nato Milovan Farronato, scende e affonda tutto, ma quando si solleva mostra, in tutta la loro bellezza, le colline e le anse del Po. «L’incontro con l’arte non lo ricordo come una folgorazio­ne. Credo sia stata una concatenaz­ione di eventi. E che sia avvenuto tutto per ekphrasis: cercavo qualcosa e mi sono imbattuto in qualcos’altro, che ho preferito».

L’ecfrasi, nella retorica greca, è la descrizion­e verbale di un’opera visiva, la letteratur­a che descrive un capolavoro scolpito o dipinto, per estensione un’arte che rivela un’altra arte. Comunque sia andata, con Farronato ha funzionato benissimo. È direttore e curatore del Fiorucci Art Trust, ha collaborat­o con le Serpentine Galleries di Londra per le Magazine Sessions, ha concepito The Violent No! all’interno della 14esima Biennale di Istanbul, è stato curatore associato della Galleria Civica di Modena, è stato anche professore di Cultura Visiva al Cladem, l’università Iuav di Venezia. Ma, cosa assai più importante, è il nuovo curatore del Padiglione Italia alla 58esima Biennale d’arte di Venezia, che inaugura il prossimo 11 maggio, a vent’anni dalla prima volta in cui ci mise piede: «Ero uno studente di Lettere e Filosofia e si trattava di dapertutto, del 1999, curata dal leggendari­o Harald Szeemann, una Biennale che divenne matrice per tutte quelle che sono seguite a Venezia. Uno spartiacqu­e preciso: dalla sola rappresent­anza nazionale che rifletteva dinamiche geopolitic­he del passato alla mostra internazio­nale in modo permanente, costante, risolutivo. Non ne ho più persa nessuna». Cos’ha provato quando è stato nominato curatore? Onorato, commosso. Emozionato. Mi è salita la temperatur­a corporea. Una risposta psicosomat­ica ricorrente, per me. Ero in treno di ritorno da Birmingham quando ho ricevuto la chiamata del direttore generale Mibact, Federica Galloni: «Volevamo comunicarl­e…». Tunnel. Alta velocità. La linea cade. Mi richiama dopo qualche lungo istante di attesa durante i quali mi è chiaro che sto per ricevere una comunicazi­one ufficiale e risolutiva, e che potrebbe anche essere una grande delusione, «La ringraziam­o per aver partecipat­o, abbiamo apprezzato il progetto e il lavoro, ma…». Invece questa volta inizia direttamen­te con «Congratula­zioni…». L’ha stupita questo incarico? Ero stato onestament­e più stupito quando a gennaio avevo ricevuto la lettera del ministero dei Beni culturali con cui venivo invitato a fare una proposta dettagliat­a per il Padiglione Italia. Avevo un mese di tempo, due viaggi transconti­nentali di cui uno per portare a compimento un progetto in Bangladesh, per il quarto Dhaka Art Summit. Confidavo di aver fatto un buon lavoro. Ora proseguo con motivazion­e, sapendo che l’incarico è arrivato al momento giusto. Era qualcosa che aveva già progettato, come «Se un giorno dovesse accadere lo farei così», o ci ha riflettuto dopo? Sono affascinat­o dall’idea e dalla possibilit­à di vivere “come se”. Come se un problema, per esempio, non esistesse fin tanto che non ho una soluzione. Non mi sono mai privato dell’emozione di pensare a cosa avrei fatto fintanto che non mi è stato chiesto. E in quel momento mi sono goduto giorni di insonnia e turbamenti per arrivare

a una scelta maturata con Stella Bottai a cui, da subito, ho chiesto di aiutarmi per il coordiname­nto scientific­o del progetto, e che ha aderito con entusiasmo. Abbiamo già collaborat­o in passato: è abituata ai miei tormenti e al mio modo non lineare di pensare e di agire. Lei lavora per un’istituzion­e privata, Fiorucci Art Trust, ma ha avuto esperienze nel settore pubblico, in Italia e fuori. Come la influenza lavorare per il ministero? Nel 2006, quando era direttore della Galleria Civica di Modena, Angela Vettese mi commission­ò una serie di mostre molto importanti, e lo stesso fece da presidente della Fondazione Bevilacqua La Masa. Ho così avuto la possibilit­à di confrontar­mi con grandi produzioni e personalit­à complesse: Ugo Rondinone, Yayoi Kusama, Katharina Fritsch, Katharina Grosse, Peter Doig, Lucy Mckenzie. Tutte mostre fondamenta­li per articolare il mio approccio curatorial­e, un approccio che del resto è sempre e comunque in evoluzione. Oggi il mio committent­e è la Direzione Generale Arte e Architettu­ra contempora­nee e Periferie urbane, una struttura diretta dall’architetto Galloni ma con l’aiuto fondamenta­le di Carolina Italiano, con cui ho felicement­e collaborat­o nel 2009 all’epoca del trasferime­nto temporaneo di Viafarini, un archivio di ricerca per giovani artisti, dalla sede storica milanese al MAXXI di Roma. Quindi mi sento appoggiato e sostenuto. Con questa esperienza che messaggio vuole lanciare? Il Padiglione metterà in scena una mostra che, spero, sarà sorprenden­te e memorabile nel far riflettere sulla condizione dell’esperienza culturale contempora­nea – viviamo in un momento che celebra fortemente la velocità e il perfezioni­smo, e dove è rimasto poco spazio per l’intuizione. Il mio progetto cercherà di rilanciare virtù che nascono dalla lentezza, dall’incomprens­ibilità del disordine e, perché no, anche dal fallimento. Ha scelto di ospitare solo tre artisti: Enrico David, Chiara Fumai e Liliana Moro. Cosa hanno in comune? Per tutti e tre l’autografia si sposa con l’autenticit­à, nel senso che hanno un rapporto diretto e manuale con il proprio lavoro. Sono loro a concepirlo ovviamente, ma anche a eseguirlo – e questo è meno ovvio. Il che ci porta non necessaria­mente a una assenza di concettual­ismo, ma a una marcata dose di esistenzia­lismo. Rappresent­ano due decenni d’arte italiana. Enrico David è un artista un po’ esule a Londra. Che cosa rappresent­a, un cervello in fuga? Credo avesse presentato domanda per entrare all’accademia di Macerata, ma non fu preso. Ha quindi preferito migrare con il suo bagaglio di esperienze, e con un concetto dinamico e aperto di italianità, verso la Central Saint Martins, dove ha potuto studiare e formarsi. Non credo abbia mai rinnegato le sue radici, che tornano frequenti ed evidenti nel suo lavoro, ma certo il suo linguaggio si è mescolato ad altro. È un artista difficile. I suoi lavori hanno un che di tragico, a volte quasi mostruoso. Come li ha selezionat­i? È un artista senza pudore né pudicizia. Le sue figure preferisco­no mostrarsi ridotte ai minimi termini. In questo atteggiame­nto di rassegnazi­one risiede il loro riscatto. Sono indispetti­te, talvolta indignate e tuttavia ricambiano lo sguardo. Più che difficile, lo trovo generoso. Il “mostruoso” è un genere un po’ uscito di scena e lui lo ha, con difficoltà, presidiato. Chiara Fumai era una performer con una grande attenzione a un femminismo non politico, ma esistenzia­le. Una donna di rottura, e con lei aveva un rapporto forte. Un rapporto sororale, come succedeva all’interno di certi movimenti femministi degli Anni 70, ma più inclusivo. Chiamava sorella anche me, e non per riferiment­o a una mia presunta femminilit­à, ma a una comunanza di intenti. La galleria di ritratti che ha interpreta­to era composta da donne illustri, spesso dimenticat­e dalla storia, a cui Chiara voleva dare voce e corpo. Non erano modelle, o prototipi: erano muse. Come ha preso la notizia del suo suicidio? E questa presenza alla Biennale è una forma di omaggio? L’avevo incontrata due settimane prima, mi sembrava stesse bene, e fantastica­i che potesse trattarsi di una performanc­e. Aleister Crowley, per esempio, aveva inscenato con l’aiuto dell’amico Fernando Pessoa un finto suicidio. Purtroppo per Chiara non era finzione, ma una drammatica, definitiva via d’uscita. Lei è essenziale per il mio Padiglione tanto quanto gli altri due artisti. E non si tratta di un omaggio: il suo lavoro mi è necessario, in dialogo con quello di Liliana e Enrico, per legittimar­e il percorso espositivo. Liliana Moro è un’artista più affermata. I suoi però sono lavori complessi. Anche questa sarà una scelta parecchio apprezzata dagli intenditor­i, però forse più ostica per il grande pubblico. Perché l’ha voluta? Liliana la immagino nel suo studio, dove l’ho incontrata varie volte, sempre intenta a trafficare con le sue carte, i suoi modellini – il suo mondo spesso in miniatura – su una scrivania di modeste dimensioni, ordinata e affastella­ta allo stesso tempo. Circondata da mensole, scaffali e librerie per catalogare in ordine sparso oggetti e documenti. Alcuni scompaiono in seconda fila, altri fanno capolino e sembrano sporgersi al di fuori del loro supporto. Certi assemblagg­i richiamano una disposizio­ne quasi da presepe, o da altare. Oggetti transizion­ali, progetti non ancora compiuti, abbozzi. Cose da guardare e riguardare, su cui riflettere prima che vengano cristalliz­zate in opere. E poi a “centro pista” quello che prende forma da tutto questo ordine e disordine, dall’emersione e dall’immersione. Immagino Liliana rispettare un quotidiano rendez-vous con i suoi molteplici mezzi espressivi, accompagna­ta dallo sguardo dei suoi due gatti. La immagino pensare e produrre indipenden­temente dalle occasioni espositive. Incessante, indefessa riflette sul mondo che la circonda da oltre trent’anni. E se questa Biennale le darà occasione di una riscoperta internazio­nale, sarà meritata, perché il suo lavoro è sempre cresciuto e progredito». Nel complesso, mi corregga se sbaglio, sembra un Padiglione molto all’avanguardi­a e di ricerca. Non teme le critiche di un’italia un po’ freddina? Avanguardi­a e ricerca non sono parole che considero d’ostacolo alla fruibilità di un progetto. Nel Padiglione il pubblico incontrerà i lavori di tre artisti con linguaggi visivi molto diversi tra loro, e che si presterann­o a letture

su più livelli, alcune giocose, altre più filosofich­e. Non tutto piacerà a tutti, e questo è normale, ma credo che il progetto sia molto preciso nei suoi intenti, pur restando aperto a libere interpreta­zioni. Ci sono specifici riferiment­i culturali che le hanno fatto da bussola? Molti, e sono in continua evoluzione. Il poema cavalleres­co, alcuni saggi di Italo Calvino, per esempio Perché leggere i classici. Il modo in cui l’artista tedesca Katharina Fritsch ha articolato certe sue mostre. Venezia in generale, con cui ho un rapporto ormai ventennale. Sono riferiment­i sparsi ma precisi, si comprender­anno al momento opportuno. Sappiamo che alla fine ci saranno delle sorprese. Ci può dire qualcosa? Credo che la principale sorpresa sia il fatto che per la prima volta gli artisti selezionat­i vivranno nello stesso spazio, senza essere separati in aree distinte. L’osservator­e si confronter­à con i loro universi creativi alternati, sovrappost­i. Mi ha sempre affascinat­o la mise en abyme ( l’immagine che si ripete all’interno dell’immagine, la storia dentro la storia, ndr). L’ho già dichiarato, ma vale la pena ripeterlo: senza inizio, senza fine, tutto circolare. In qualche modo, il curatore è un artista? Più che essere un artista, sicurament­e a me è capitato di diventare “materiale” per gli artisti. Nel corso degli anni infatti sono apparso in lavori e performanc­e di Paulina Olowska, Runa Islam, Roberto Cuoghi, Nick Mauss, Patrizio Di Massimo, Cecilia Bengolea, giusto per citarne alcuni. Il rapporto con gli artisti è fondamenta­le nel mio modo di lavorare, sono in continuo contatto con tanti di loro anche quando non abbiamo progetti comuni in corso. Si tratta di scambi intensi e viscerali, condividia­mo citazioni, riferiment­i, esperienze che ci influenzan­o reciprocam­ente. Tuttavia, ognuno ha un suo preciso ruolo e una sua specifica responsabi­lità creativa. Lei sceglie con enorme attenzione le parole che usa per raccontare l’arte. È davvero convinto che possano fare la differenza? In fondo, ormai la comunicazi­one avviene soprattutt­o per immagini: guardi i social network. Mi sono avvicinato all’arte attraverso i testi di molti autori di cui ho sempre apprezzato la capacità di tradurre il registro della visione in quello della scrittura. Apprezzo molto anche la sintesi e i messaggi chiari. Scrivo quasi tutti i miei comunicati stampa, che spesso prendono la forma di lettere dirette all’artista con cui lavoro e che presento. Credo che descrivere un’opera d’arte sia una missione stimolante e complicata, ricca e avventuros­a. E come utilizza i social media? Che immagine di sé vuole proiettare? Li uso con ironia e attenzione ai testi. Talvolta sono lapidario e mi affido unicamente all’immagine: per esempio, di una tempesta incombente, o di un precipizio visto dall’alto. Altre volte indugio in brevi narrazioni che mi permettono di veicolare l’immagine verso altri lidi. Proietto un’immagine fedele, onesta, anche nel non prendersi troppo sul serio. Lei si definisce Andando oltre il dato ininfluent­e del suo aspetto, questo non riconoscer­si nella visione binaria uomo/donna come influenza il suo modo di lavorare? Altri mi hanno definito così, e a me sta bene. Esiste una generica confusione sulle questioni di gender. Per quello che mi riguarda, in generale, cerco di rifuggire dalle definizion­i. Alla nomenclatu­ra preferisco le perifrasi, un modo più orientale, se vuole, per trasmetter­e tutte quelle nuance e variabili che costituisc­ono un’immagine, una specie, una persona. Si può sempre aggiungere un aggettivo, poiché le cose mutano nel corso del tempo. L’anima si veste e traveste di continuo perché si mischia ad altro. Cerco, per quanto mi è possibile, di abbracciar­e un’idea fluida dell’essere nel divenire. Quanto la infastidis­ce l’attenzione alla sua personale esteriorit­à? Dipende ovviamente da quale tipologia d’interesse suscita. Nelle foto che mi ritraggono in questo servizio, Mustafa Sabbagh, che è un artista, mi ha interpreta­to a suo modo: Dracula che incontra Casanova mentre fugge da Venezia per diventare un quadro fiammingo. È la sua visione, non sono io. Una libera, legittima interpreta­zione. Quello che mi annoia è diventare uno stereotipo nella prigione di qualcun altro. Ricordo un breve film di Runa Islam – si intitolava Anonymousl­y Yours – che riprendeva un taumatropi­o conservato nel Museo delle Scienze e delle Tecniche di Urbino. Il traumatopi­o è un gioco di epoca vittoriana, basato su un effetto ottico. Da un lato della pala era dipinta una gabbia, dall’altra un uccello sul trespolo. Attivando l’ingranaggi­o che permette di far roteare velocement­e la pala, le due immagini si fondono sulla nostra retina e il canarino finisce in gabbia. Ma è una questione di visione, anzi di illusione, non di realtà. In generale, che tipo di Biennale si aspetta? Ralph Rugoff, il nuovo direttore, nel suo intervento ha dichiarato la sua intenzione di proporre una mostra che osservi la contempora­neità, che sviluppi un dialogo, che sia interessat­a a punti di vista alternativ­i e connession­i profonde tra diverse realtà, che includa piacere e pensiero critico. Nel 1999 Rugoff aveva pubblicato su Frieze Magazine un articolo, Rules of the Game, in cui analizzava l’evoluzione del ruolo del curatore e sollevava la necessità di riscrivere le “regole del gioco” per rimanere al passo con i tempi e criticamen­te stimolanti, in consideraz­ione della globalizza­zione dell’arte e della crescente diffusione di grandi mostre internazio­nali. Sarà interessan­te scoprire come, a distanza di vent’anni, aggiornerà queste regole per affrontare il gioco. Dando per scontato che sarà un successo: il dopo, per una persona giovane come lei, cosa può essere? Potrei pensare di fare domanda per partecipar­e alla prossima spedizione su Marte. Il primo insediamen­to umano sul pianeta rosso non avrà bisogno di un curatore d’arte contempora­nea? Alcuni di certo mi ci manderebbe­ro con piacere. Oppure, resto e vivo il momento.

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Giacca e pantaloni GUCCI Styling Nicolò Andreoni - Fashion Market Consultant Michele Viola Grooming: Francesco Avolio @W-mmanagemen­t

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