PROLOGO Il Plastic di Milano si racconta, dopo la scomparsa di Lucio Nisi
LUCIO NISI, UNO DEGLI STORICI FONDATORI, NON C’È PIÙ. LA REALTÀ PIÙ DIROMPENTE DELLA NIGHTLIFE ITALIANA STA PER COMPIERE 40 ANNI. E LA SQUADRA CHE HA DATO VITA AL LOCALE RACCONTA COM’ERA, E COME SARÀ
Ci sono momenti in cui bisogna rompere. Le scatole, gli schemi, l’ordinario. Il Plastic nasce per quello, e a parlarne oggi non si racconta solo la storia di una discoteca che a dicembre compie 39 anni, ma quella di una rottura necessaria a cambiare le cose. Era il 1980, un altro mondo. Milano era ancora avvolta nella nebbia, in un grigiore borghese, tranquillo e vagamente conservatore. Per le strade i ragazzi andavano in giro con le creste punk, indossavano il proprio umore e i propri pensieri, e a molti non piaceva: capitava che di giorno la polizia chiedesse loro i documenti e li caricasse sulle camionette, che le signore li guardassero storto, che i genitori non li capissero. Quei ragazzi eravamo (anche) noi. E volevamo il nostro spazio. Così ci siamo costruiti un ghetto, che però funzionava al contrario. Le porte non servivano a escludere, ma a includere: noi e tutti quelli come noi. E poi tutti quelli che sarebbero arrivati negli anni: cambiando, anticipando, allargando confini e idee. Il Plastic era il posto in cui ci sentivamo al sicuro, in cui potevamo essere noi stessi. Un rifugio in cui vivere di notte quello che si viveva di giorno, senza etichette, senza generi, senza discriminazioni. Infatti la selezione all’ingresso − la prima in Italia, diventata quasi mitologica nei racconti successivi − non ha mai avuto niente di snob. Non tagliava fuori le persone, ma soltanto i guai: non c’entravano i soldi o gli abiti, ma solo un senso di appartenenza e comunanza. Una volta dentro, si diventava una tribù, ci si fondeva in una famiglia. La più democratica di tutte: da noi il denaro non ha mai comprato accessi sicuri o tavolini speciali. Una volta varcata la soglia, si è sempre stati tutti uguali: e tutti diversi, naturalmente. Qualcuno, all’epoca, ci chiamava «un centro sociale a cinque stelle», perché disturbavamo la quiete sonnolenta come un centro sociale, però con l’avanguardia: della musica, della società, della moda. I punk arrivavano vestiti da Vivienne Westwood, noi scovavamo le suggestioni estetiche tra Londra e New York e un sacco di gente scovava noi. Metaforicamente, quello del Plastic era l’indirizzo segnato sul foglietto che i ragazzi di provincia avevano in tasca quando arrivavano a Milano: il posto in cui andare per sentirsi a casa, per fare amici, per beccare i propri simili. Incidentalmente, in mezzo a quei ragazzi negli Anni 80 ci trovavi Gianni De Michelis, il più nottambulo dei nostri politici. O Nick Kamen, che all’epoca era il sogno erotico del 90% della popolazione: maschi e femmine, indistintamente. O magari incappavi in Freddie Mercury. Tra il bagno delle donne e quello degli uomini avevamo un flipper: lui si piazzava lì a giocare tutta la notte. Gli piaceva di brutto quel flipper, e a noi piaceva che gli piacesse. Al Plastic potevi anche finire seduto di fianco ai Pink Floyd, senza riconoscerli. È successo, a uno di noi: una nottata intera a parlare con dei ragazzi fino a starsi davvero simpatici. E dopo, soltanto dopo, capire che quel tizio eccezionale era David Gilmour, in giro a Milano. Da New York veniva a trovarci Grace Jones, e anche Keith Haring: un amico vero. Arrivavano tutti quanti e si fondevano in quel crogiolo di umanità riparata dalle nostre quattro mura, mentre una fila enorme si formava fuori, con la speranza di varcare la soglia. La coda era spesso così lunga che girava intorno all’isolato e arrivava fino a corso Ventidue Marzo, la strada che dall’aeroporto di Linate porta in centro. Una volta ci costrinsero persino a chiudere, perché stava arrivando Papa Giovanni Paolo II e le autorità non volevano
che tutta quella gente − e che gente! − scorresse sotto gli occhi del pontefice. Come dirgli che non era per lui?
Sono passati gli anni e il locale è sedimentato nell’esperienza collettiva della città, un punto di riferimento. Se ne parlava sui giornali in toni un po’ mitologici, ma noi abbiamo voluto continuare a guardare avanti: intercettare quello che stava per succedere, portare le persone nel futuro. Alle autorità cittadine, invece, in un certo momento, pareva interessare intercettare noi. C’è stato un periodo, a metà dei Duemila, in cui l’oscurantismo sembrava avere di nuovo preso il sopravvento. Il popolo della notte non era ben visto e le regolamentazioni cambiavano così rapidamente, ed erano così stringenti, che abbiamo temuto di non farcela: ci facevano chiudere per un’uscita di sicurezza spostata di mezzo centimetro rispetto a dove avrebbe dovuto essere. Era giusto, naturalmente, ma era anche molto complesso seguire le indicazioni, specie in un palazzone vecchio come quello di viale Umbria 120, dove il Plastic allora stava.
Sono stati i momenti peggiori, ma ce l’abbiamo fatta.
E il locale, anche dopo il cambio di sede − ci sono voluti dieci anni per trovare un posto che ci piacesse abbastanza per trasportarci la nostra tribù − ha continuato a plasmare la meglio gioventù: la differenza tra l’ignoranza e la conoscenza sta nella curiosità, e i nostri ragazzi sono curiosi, aperti, senza steccati. Arrivano ad ascoltare musica che non si sente da nessun’altra parte e che magari non conoscono nemmeno, ma vogliono provare. Sentono parlare di arte e artisti, anche da noi, e approfondiscono. Si inventano uno stile ogni settimana, ed è sempre meno legato alle etichette e ai brand, e sempre più al proprio gusto, alla propria ricerca. Nel nostro “centro di accoglienza” continua a entrare un’umanità che dà fiducia e speranza per il futuro: un melting pot che è uno dei migliori laboratori di progresso e tolleranza in circolazione. Ed evidentemente non lo pensiamo solo noi: per questa “funzione sociale”, nel 2009, ci hanno dato un Ambrogino d’oro. È stato uno dei momenti più memorabili della nostra storia: perché siamo l’unica discoteca ad averlo ricevuto, e perché sancisce e istituzionalizza un ruolo che ci siamo cuciti addosso, che abbiamo sempre sentito nostro. E poi anche per un’altra ragione, molto più intima e importante. Quel riconoscimento ha potuto prenderlo anche Lucio Nisi, che da pochissimo non c’è più. Nessuno lo ha meritato quanto lui: per tutti questi anni ha lasciato che il Plastic fluisse, che vivesse la propria vita. Gli ha dato un’identità, e poi l’ha lasciata crescere senza intromettersi, come solo quelli bravi davvero sanno fare.
*Nicola Guiducci, mente musicale del Plastic, ha fondato il locale con Lino e Lucio Nisi, scomparso a novembre. Una storia scritta negli anni con Rosangela “Pinky” Rossi e Sergio Tavelli. Tommaso e Francesco sono i figli di Lucio Nisi