L’ECOLOGIA PRENDE IL TRENO Viaggio su rotaia tra Svezia e Norvegia, dove le persone rifiutano l’aereo
L’ondata ambientalista promossa da Greta Thunberg ha colpito il Nord Europa, dove sempre più persone scelgono il treno invece dell’aereo. L’esperienza merita un viaggio di GQ di tremila chilometri su rotaia tra Svezia e Norvegia
È stato dopo una breve galleria, mentre bordeggiavamo lentamente il costone della montagna: improvvisamente il mondo si è presentato in bianco e nero, la neve che turbinava, quella polverizzata al passaggio del treno, la coltre che copriva la valle lasciando nude, e come incise su una lastra, striature di roccia scurissima sulle sommità calve di un paesaggio ormai polare, e poi la lingua nelle sfumature ghisa e piombo del Rombaksfjord là sotto oltre il crepaccio. Avevamo lasciato da poco Narvik, con le case rosso mattone o senape, i fabbricati modernissimi dai colori pastello, ed ecco, più o meno all’altezza del confine tra Norvegia e Svezia, come se avessimo pigiato su un telecomando, l’inverno artico, avvolto nel suo mistero selvaggio. Nel caldo della carrozza era calato il silenzio, anche navigati avventurieri attrezzati per il fine settimana into the wild osservavano attoniti: s’era innescato tra noi quello che Thomas Mann chiama “winterlust”, lo struggimento dell’incanto invernale. Era il giro di boa del nostro viaggio da Oslo a Stoccolma, lo zenit ferroviario d’europa: qui la bellezza sconvolgente della natura sembra celebrare la sfida dell’uomo nel Grande Nord, quell’epopea – degna del Klondike americano – che portò cinquemila uomini e donne a costruire la Ofotbanen, la linea ferroviaria più a settentrione del continente, inaugurata nel 1902 per collegare le miniere di ferro di Kiruna, nella Lapponia svedese, al porto dell’of otfjorden a Narvik, allora quattro baracche di pescatori di merluzzo, oggi una delle più dinamiche e ospitali città norvegesi. Eravamo dunque al culmine geografico ed estetico della nostra scarrozzata di tremila chilometri per sperimentare la nuova, prorompente giovinezza del treno in Svezia e Norvegia.
Tutto è iniziato con la contraerea del movimento “flygskam”, “vergogna di volare”. Tra i fondatori, a Stoccolma, Malena Ernman, mezzosoprano e mamma di Greta Thunberg, che per andare a pronunciare il suo j’accuse all’onu ha
attraversato l’atlantico su uno yacht a vela. Una sorta di boicottaggio degli aerei, responsabili di produrre tra il 2 e il 3 per cento delle emissioni di CO2 nell’atmosfera e il 12 per cento di tutte quelle generate dai mezzi di trasporto nel mondo. L’alternativa principale è il treno: ogni passeggero che decolla produce 285 grammi di CO2 al chilometro, contro i 14 grammi di chi viaggia sui binari. Così che nell’ultimo anno in Svezia, secondo il WWF, il 23 per cento della popolazione ha rinunciato all’aereo e i dieci principali aeroporti del Paese segnalano un calo dei biglietti dell’otto per cento in sei mesi; mentre le ferrovie incassano un aumento di quasi il nove per cento sulle tratte nazionali.
«Noi norvegesi preferiamo parlare di orgoglio del treno più che di vergogna di volare», dice Johanne Meyer nel quartier generale del gruppo pubblico VY a Oslo. Racconta che l’aumento di passeggeri nel 2019 è stato intorno al tre per cento e che stanno investendo su otto nuovi convogli-letto, nelle combinazioni treno-ferry lungo la costa e treno-auto elettriche nelle città. Il tempo di curiosare nel cantiere del Museo Munch che aprirà a Oslo la prossima primavera – uno degli eventi culturali e architettonici mondiali del 2020 – e ci troviamo con il naso appiccicato al finestrino mentre scorre lo spettacolo del lago Mjøsa e poi la valle di Lillehammer. Una delle prime sorprese in carrozza è che sono pochi quelli che leggono libri, ma in compenso un solo cellulare ha squillato durante le 40 ore di ferrovia attraverso i due Paesi. Piuttosto si nota il piacere di riscoprire la conversazione tra umani.
Con noi ci sono Kristoffer Carlin, regista di 48 anni, ed Elisabeth Frost, di 22, laureanda in Sociologia: sono entrambi diretti a Bodø, avrebbero potuto volarci in 75 minuti, invece si sobbarcano 16 ore di treno con cambio a Trondheim. «Sto promuovendo il mio ultimo documentario e viaggerò per lo più in treno», dice Kristoffer. «Solo un anno fa non ci avrei pensato. Ma ora sento che è la cosa giusta da fare. E poi ho capito il trucco: il treno mi regala tempo anziché rubarmelo». Elisabeth si lamenta che non si fanno sconti per studenti, come accade con gli aerei: «Noi norvegesi siamo pratici, per non dire tirchi, abbiamo bisogno d’incentivi, come è accaduto con le auto elettriche».
Dopo Dombås la luce è già tenue e la campagna già bianca, il treno punta a nord come un segugio che sente odore di natura selvaggia. Nella carrozza-nido i piccoli gattonano in un ampio spazio giochi, e i genitori sembrano godersi una vacanza, riposano accampati tra passeggini attrezzati come fuoristrada, nell’aria odore di borotalco e di pizza. Solo il giorno dopo, quando riprendiamo il viaggio da Trondheim, il paesaggio comincia a fare sul serio, il treno sfiora cascate possenti e penetra un susseguirsi di tormente di neve, alla foresta è subentrata la taiga. La nostra guida è ora Øystein Lillegaard, il train manager, che percorre questa linea da 45 anni. Elegante, la barba curata come un ammiraglio, Øystein è one man show
(la stessa cosa accadrà con i suoi omologhi
svedesi): serve al bar, aiuta le mamme con le carrozzine, esce nel gelo a consegnare la colazione al macchinista isolato sulla motrice, passa per i vagoni a raccattare plastiche e cartacce, trova il tempo per alimentare con i suoi racconti la nostra emozione al passaggio del Circolo polare artico nella regione di Salten, un plateau che si estende fino a Bodø, regno dei Sami e delle loro mandrie di renne, ma anche di alci, buoi muschiati e aquile che planano quasi a voler artigliare quelli che curiosano al finestrino. «Nell’ultimo anno direi che i passeggeri sono raddoppiati. Viaggiare senza sentirsi in colpa appaga», dice.
Nel Nordland, a Bodø, visitiamo l’impressionante Saltstraumen, uno dei maggiori gorghi del mondo, provocato dalle maree che quattro volte al giorno generano il travaso tra il fiordo e l’oceano e viceversa, una lezione di filosofia outdoor per ridimensionare le nostre presunzioni umane. Saliamo quindi più a nord, il cielo sopra Narvik è rosso, quasi a evocare quel 9 aprile del 1940, quando nell’of otfjorden deflagrò una delle più devastanti battaglie navali della Seconda guerra mondiale. Un’esperienza che il Museo della Guerra inaugurato nel 2016 ricostruisce in modo intrigante, suscitando domande più che offrendo verità storiche.
Il macchinista che ci ospita per un tratto sul locomotore mentre attraversiamo la Lapponia svedese verso Kiruna – qui il paesaggio è pre-russo e la media invernale di meno 25 gradi – si chiama Michael Larsson. Racconta degli hipster che da Stoccolma arrivano per fare heliski a Bikskränser, dei giapponesi e cinesi che salgono ad Abisko, ritenuta la capitale mondiale dell’aurora boreale: «Prima viaggiavano in aereo, ora fanno fatica a trovare posti su questo treno», dice. Vediamo alci e renne. Nonostante le reti protettive accade che con la neve alta i poveri animali scelgano i binari per i loro spostamenti e Michael, con uno sguardo pietoso, lascia intuirne le conseguenze. A Kiruna scendono una cinquantina di ragazzi impegnati in un torneo di pallamano, e salgono studenti tedeschi reduci da sei mesi di master sul cambiamento climatico nell’artico. Il treno compie un’ampia deviazione, perché il terreno sta collassando a causa delle miniere di ferro, le più grandi d’europa, estrazioni che valgono un miliardo di euro all’anno. Tutta la città sarà rimossa in un’area sicura nell’arco di un triennio, i fabbricati di pregio smontati e rimontati.
Quando inizia, la foresta sembra non finire più, un paesaggio che ci accompagnerà per due giorni quasi fino a Stoccolma. A Boden, 20 mila abitanti, facciamo tappa per scoprire come una città-bunker, roccaforte delle forze di difesa svedesi durante la Guerra fredda, sia diventata la mecca degli adepti della wilderness, e non a caso è in questa regione che si trovano realtà come quella del Treehotel, alloggi di design sospesi nella vegetazione boreale. Anche qui si arrivava in aereo da Stoccolma, ma ora solo uno svedese blasfemo oserebbe imbarcare gli sci. Jimmy e Felicia, nostri vicini sul treno per Stoccolma, confessano sottovoce che a Natale andranno in Vietnam: «Non posteremo foto, però: nemmeno i nostri parenti, nell’era di “flygskam” e di Greta, risponderebbero con un wow!», dice Felicia. Volare sta quasi diventando un tabù inconfessabile, tanto che nel nuovo lessico ecologico-sociale c’è un termine che descrive il loro dramma, “smygflyga”, “volare in segreto”. Ma noi non lo diremo a nessuno.