GQ (Italy)

NELLO SPAZIO E RITORNO

- Testo di ALBA SOLARO

Quando un musicista california­no ha visioni felliniane, colleziona cappelli, ha un’idea dello stile raffinata e complessa, riesce ad attrarre Pharrell Williams, allora tutto diventa chiaro: BECK è tornato. Con un disco che è un viaggio nelle zone più remote di sé

Beck fa una piroetta, poi un’altra, apre la giacca del completo grigio per farsi ammirare bene: «Sono abiti italiani, sono venuto fin qua per procurarmi dei bellissimi abiti italiani». Lo dice sorridendo ma senza alcuna ironia, e sembra quasi più un teenager ora che sta per compiere 50 anni (a luglio dell’anno prossimo) e ha da poco pubblicato il quattordic­esimo album, Hyperspace, che non nel ’94, quando arrivò in Italia per promuovere Mellow Gold.

Era il ragazzino di cui tutti parlavano perché aveva inciso un pezzo intitolato Mtv Makes

Me Want To Smoke Crack e poi Loser, uno dei più grandi singoli di quel decennio. Ci eravamo incontrati a Roma sotto i portici di piazza Vittorio; aveva finito un’intervista radiofonic­a ed era affamato. Siamo entrati in una tavola calda, aveva ordinato una parmigiana. Parlava poco e aveva l’aria spaesata. Ora siamo nella

Beck, 49 anni. Hyperspace è il suo quattordic­esimo album in studio, appena uscito su etichetta Capitol Records

suite di uno scintillan­te hotel milanese, dove il musicista california­no è ospite di Gucci, e parla un sacco, vuole sapere com’è la mostra di Wes Anderson alla Fondazione Prada. Si toglie il cappello da mormone, ne possiede una quantità che neanche Imelda Marcos con le scarpe. Le cose sono decisament­e cambiate. Alcune, perlomeno.

«Incidere un album per me è come girare un film», comincia a raccontare. «È quel tipo di processo creativo. Sono sempre stato influenzat­o dai registi, amo P.T. Anderson, e Wes Anderson; se avessi fatto dei film sarebbero stati simili ai loro. In fondo è merito di mia madre. Quando ero piccolo mi portava nei cineclub a vedere i lavori di Fellini, Antonioni, Rossellini. Sono stati il mio primo amore, Fellini soprattutt­o. La gente faticava a capire i miei primi dischi, “sono strani” mi dicevano, “succedono troppe cose contempora­neamente”. Ma è quello che accade nei film di Fellini. Un’intera orchestra di vita e di umanità». Sua madre, Bibbe Hansen, è stata un’artista e attrice della Factory di Andy Warhol; il padre è il musicista canadese David Campbell, adepto di Scientolog­y, come Beck del resto. Fino a un po’ di anni fa ne parlava ma ora si è stufato, chi lo intervista è avvisato: non nominare la setta di Ron Hubbard se non vuoi che si alzi e se ne vada.

«Il mio preferito, per quanto riguarda Fellini, è Giulietta degli spiriti», continua a raccontare. «E anche l’episodio che aveva girato in Boccaccio 70 (era Le tentazioni del dottor Antonio, con Peppino De Filippo bacchetton­e che impazzisce per la fanciulla di un enorme cartellone pubblicita­rio del latte,

ndr). Ho fatto un’intera tournée con i costumi ispirati a quella storia». Avrebbe anche voluto portarsi dei robot sul palco per il tour di The Informatio­n ma era troppo costoso così alla fine ha optato per dei burattini. Malgrado il titolo lo possa far pensare, Hyperspace, il nuovo album, non ha nulla di fantascien­tifico; musicalmen­te è un bel mix di sintetizza­tori, pop, languori, invenzioni, ombre.

E se fosse un film? Beck si aggiusta sulla sedia: «Sarebbe un film moderno, una storia di vita quotidiana. Che parla di fuga dalla realtà di tutti i giorni, l’iperspazio in questo caso non sono le galassie ma è uno spazio interiore; il luogo dove tutti fuggiamo, ciascuno a modo suo. C’è chi lo fa con il sesso; chi con le droghe; per qualcuno è il cibo, per altri è il denaro; magari l’auto di lusso o i vestiti che ti sei comprato quella settimana. Ogni canzone racconta un modo diverso di superare le paure, i dolori, i segreti. Conosco persone che si sentono a posto solo quando vanno in moto, o con un certo taglio di capelli; senza quello vanno in crisi, si sentono delle nullità, non vogliono neanche farsi vedere». Siamo tutti insicuri. «Sì, ma lo dico con amore, non sto giudicando. È quello che anche Fellini faceva; mostrare che grande circo è la vita. Assurdo, a volte triste, strano e bellissimo».

La sua vita è stata intensa, è cresciuto nella parte di East Los Angeles dove nessuno si avventura volentieri; ha lasciato scuola per andare a New York a familiariz­zare con quello che restava della scena punk, poi è tornato a LA per fare i suoi dischi. È il tipo di musicista che tutti rispettano, probabilme­nte perché ha sempre fatto le cose a modo suo. «Il bello è che questo doveva essere un anno sabbatico; ero esausto. Poi è arrivata la prima canzone, Uneventful Days, e ho capito che lì c’era un album che poteva nascere. Come quando cambi casa, sei nel tuo nuovo appartamen­to e tutto quello che c’è è il letto e una sedia, ma è quanto ti serve per ricomincia­re».

Un’altra cosa bella di Beck è che adora collaborar­e con gli altri. In Hyperspace ci sono ospiti di rango (Chris Martin dei Coldplay, Sky Ferreira), soprattutt­o c’è un complice con cui sognava da tanto di lavorare. «Erano almeno sei anni che cercavo di fare un disco con Pharrell Williams, ogni volta succedeva qualcosa. Pharrell è un motore creativo pazzesco. È un minimalist­a, ma un minimalist­a esuberante. La leggerezza e l’ottimismo che mette nella musica, per me è così difficile da ottenere e invece per lui è la cosa più naturale del mondo». Oltre alla musica li unisce anche la passione per i cappelli voluminosi. Allora parliamo di stile. «David Bowie, per me lo stile è David Bowie. E Marcello Mastroiann­i. Mi piaceva come vestivano i Clash, e quando ho visto Nick Cave in concerto nell’85 ho pensato che fosse l’uomo più elegante della terra. Bob Dylan aveva stile, e Mick Jagger, anche se lui è sempre stato più bravo a spogliarsi che a vestirsi». E oggi? «Matt Shultz, il leader dei Cage The Elephant. Abbiamo fatto un tour insieme, quel ragazzo ha un guardaroba sorprenden­te». Siamo talmente abituati a farci sorprender­e da

«IPERSPAZIO, NON COME GALASSIE MA COME LUOGO INTERIORE DOVE FUGGIRE»

Beck, che è difficile immaginare cosa possa sorprender­e lui. «Nella musica? Rosalia. Ha fatto del flamenco qualcosa di completame­nte nuovo. Oggi non è difficile sorprender­si, c’è così tanta musica. Per i miei figli (Cosimo e

Tuesday, 12 e 15 anni, ndr) è vecchio un disco uscito l’anno scorso, ma io vengo da un mondo dove un nuovo paio di scarpe ti doveva durare almeno due anni. E quando entravi nel negozio di dischi dovevi riflettere bene su come spendere i tuoi soldi: prendo gli Smiths? O il nuovo dei Sonic Youth? I miei ragazzi ora seguono quello che piace anche ai loro amici: per me una cosa del genere era impensabil­e».

Il nuovo album segue Colors, del 2017, vincitore del Best Alternativ­e Music Album e del Best Engineered Album ai Grammy

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