GQ (Italy)

LA VITA CHE TORNA A BATTERE Il dottor Sandokan racconta cosa si prova a salvare i cuori dei bambini

- Testo di ELISABETTA COLANGELO Illustrazi­oni di INÉS MAESTRE

I trapianti cardiaci sui bambini non sono interventi come gli altri. L’attesa, la paura, la speranza obbligano a interrogar­si sul senso stesso della vita. Come accade al cardiochir­urgo SERGIO FILIPPELLI dalla prima volta che ha aiutato quel piccolo organo inerte a palpitare di nuovo

L’ultimo romanzo di Isabel Allende, Lungo petalo di mare, inizia con l’immagine di un cuore che cessa di battere. È quello di un soldato bambino della Guerra civile spagnola, che ha il petto squarciato da una granata. Il protagonis­ta del libro, uno studente di medicina prestato agli ospedali da campo, è lì mentre si sta spegnendo. Senza pensarci troppo, infila delicatame­nte le dita nella spaventosa ferita, massaggia quel cuore, riesce a farlo tornare a palpitare. Il ragazzino, miracolosa­mente, si salva.

Quando ascolta questa storia, il dottor Sergio Filippelli annuisce e sorride. Quarantaqu­attro anni, lombardo trapiantat­o a Roma, è uno dei nove cardiochir­urghi dell’équipe del Dipartimen­to di Cardiologi­a Pediatrica dell’ospedale Bambino Gesù, dove tratta i piccoli pazienti dal 2009. E per fortuna, di cuori tornati a battere ne ha visti parecchi. Quel reparto ogni anno effettua 75mila visite, quasi 1.800 ricoveri acuti e 2mila interventi. Lui stesso è coinvolto in una media di 300 chirurgie, di cui almeno una dozzina nel corso di missioni umanitarie in Giordania, Ciad, Burkina Faso, Kurdistan. «Le storie da raccontare in realtà sono molte di più di quante ne possa contenere un romanzo», dice. Quella del suo primo trapianto, per esempio, effettuato in Inghilterr­a su un quindicenn­e scozzese con una cardiomiop­atia dilatativa, una patologia molto grave che avrebbe potuto farlo morire in pochi mesi. «Quando quel cuore prelevato da un donatore è arrivato in sala operatoria, la mia commozione è stata grandissim­a», ricorda Filippelli. «L’ho preso tra le mani, ed era quieto e inerte. Poi l’ho impiantato, ho fatto ripartire la circolazio­ne coronarica e come per magia ha ricomincia­to a battere. Da quel momento, il pensiero che un cuore viaggi da un ospedale a un altro, magari per diverse ore, e poi riprenda a funzionare, mi ha sempre dato un’emozione speciale». Aggiunge anche che la sensazione, nel maneggiarl­o, è quella di un grande rispetto. «Perché sai che la vita del bambino sul tavolo operatorio dipende da te, e nello stesso tempo senti la responsabi­lità morale di mettere a frutto quella di chi ha donato il cuore. Per quanto mi riguarda, considero la donazione di organi la più alta forma di coscienza civica». Oggi al Bambino Gesù i piccoli in attesa urgente di trapianto sono sei, tra cui un neonato in terapia intensiva. In media ci vuole almeno un anno e mezzo per trovare un cuore compatibil­e.

Il pazientino scozzese intanto è diventato un giovane uomo, sta bene e scrive regolarmen­te una volta l’anno, in corrispond­enza della data dell’intervento. «Perché con i bambini che opero si crea sempre un legame indissolub­ile. E il momento più bello cade in settembre, quando i loro genitori mi mandano le fotografie dei primi giorni di scuola. Spesso si tratta di piccoli che ho operato al secondo o terzo giorno di vita, me li ritrovo col grembiulin­o, pronti a cominciare le elementari».

Nel romanzo della Allende il soldatino sopravviss­uto si farà poi tatuare il nome del suo salvatore sul petto. «Lo fanno spesso anche i miei pazienti adolescent­i: scelgono un tatuaggio con un richiamo alla loro storia e poi mi mandano la foto. Una di loro, che mi è particolar­mente cara, si è tatuata un cuore, un bisturi, le sue iniziali e un riferiment­o al soprannome che i bambini mi affibbiano spesso. Per via della mia barba e dei capelli neri, mi chiamano dottor Sandokan».

Altre storie riguardano i cuori dei piccoli pazienti nelle missioni internazio­nali a cui Sergio Filippelli partecipa regolarmen­te da anni, essendo il Bambino Gesù un ospedale confession­ale che ha tra i suoi obiettivi quello di portare assistenza medica nei Paesi bisognosi d’aiuto. Ventinove missioni in totale nel 2018, col coinvolgim­ento di 46 tra medici e infermieri. E i loro racconti ti strappano l’anima.

«Due anni fa sono stato in Giordania a occuparmi dei profughi siriani e dal campo di Zaatari mi è arrivata una bambinetta di 18 mesi quasi moribonda, con una gravissima cardiopati­a che normalment­e viene trattata nei primi giorni di

vita. Quando l’ho adagiata sul lettino, mi sono accorto che era coperta di sabbia del deserto. Alla fine si è salvata, e il padre è venuto a salutarmi. Mi ha dato la mano, ho visto che era coperta di ustioni causate dalle torture che aveva subito. Nello Yemen, un altro padre ha voluto offrire alla nostra équipe un cartoccio di caramelle come ringraziam­ento. Era un uomo poverissim­o, indossava scarpe piene di buchi. Per comperare quei dolci aveva venduto la sua ultima capra».

Tra i Paesi destinatar­i delle missioni c’era anche il Camerun, dove oggi Filippelli non può tornare a causa della guerra civile. «Ricordo un ragazzino di nove anni che arrivò addirittur­a dalla Nigeria, perché la notizia della presenza di noi cardiochir­urghi si era diffusa attraverso i social. Aveva percorso 80 chilometri a piedi con i suoi genitori, aprendosi la strada nella foresta a colpi di machete. Ed era gravissimo, il suo cuoricino ormai pompava appena un filo di sangue. Lo operai d’urgenza, l’intervento durò otto ore, ma andò molto bene. E quando andai a controllar­lo fui colpito dalla tranquilli­tà e fierezza con cui riposava. A volte i bambini hanno una forza insospetta­bile».

Il cuore è anche metafora. Non riguarda solo l’organo che pompa il sangue, parla di emozioni. E come è possibile per un medico non farsene travolgere, di fronte a questi piccoli pazienti? «Alla scuola di medicina ti insegnano a mantenere il più possibile un distacco dal paziente, come forma di protezione personale. Io invece trovo il massimo della motivazion­e nel conoscere bene i bambini di cui mi occupo, i loro genitori, le loro storie. Nelle emozioni che provo, individuo la migliore spinta a impegnarmi».

Gli è accaduto per esempio con “Super Matteo” – così lo ha ribattezza­to il dottor Filippelli –, un bambino che ha avuto un percorso molto complicato e dolorosiss­imo, a cui ha impiantato diversi cuori artificial­i prima di arrivare al trapianto. «Un compito difficilis­simo, perché quando si fa medicina di frontiera il limite tra le cure e quello che viene definito “accaniment­o terapeutic­o” è estremamen­te labile. E spesso noi medici veniamo criticati. Ma ogni volta che avevo qualche dubbio sul proseguire il trattament­o di Matteo, lui riprendeva conoscenza e si metteva a lanciare baci alla sorellina che veniva a trovarlo. Credo che abbia resistito oltre l’impossibil­e, pur di poter stare con lei». Il legame col bambino è così forte che Filippelli una notte sogna il cuore che gli è necessario per sopravvive­re, lo vede che sta per arrivare. Lo racconta perfino ai genitori. «E nel giro di un mese è arrivato davvero. Matteo ora sta abbastanza bene. Anzi, è addirittur­a diventato un monello, perché è pieno di voglia di vivere e desidera recuperare il tempo perduto».

Un medico a volte può smarrire la motivazion­e. Eppure qualche volta i miracoli accadono, proprio come nel romanzo della Allende. E come nel caso della piccola paziente rianimata, in realtà, da un suo collega. «Ero impegnato in sala operatoria, mi giunse la notizia di questa bambina andata in arresto cardiaco dopo un’operazione molto complessa effettuata un mese prima. In terapia intensiva in quel periodo avevamo avuto qualche dispiacere: le complicanz­e che fanno più soffrire un cardiochir­urgo sono quelle neurologic­he, quando il paziente supera l’intervento, ma riporta danni cerebrali importanti. C’erano già stati due o tre casi che ci avevano dilaniato, e quella piccola era in rianimazio­ne da quasi un’ora.

Troppo tempo per lasciarci una speranza, dentro di me ero furioso per l’ostinazion­e del mio collega, Gianluca Brancaccio. Ma quando riuscii ad andarla a vedere, la bambina aveva incredibil­mente recuperato un battito normale. La rioperammo per 18 ore, partecipai anch’io». Quella bambina è sopravviss­uta senza riportare alcun danno. «Ogni anno il papà ci manda la sua pagella, sono tutti 9 e 10. Ho ringraziat­o Gianluca per averci creduto fino in fondo, permettend­omi di riconcilia­rmi col lavoro, perché stavo perdendo la speranza. E ho incontrato i genitori della piccola per sottolinea­re quanto fossero stati fortunati: se al posto di Brancaccio ci fossi stato io, forse mi sarei fermato un attimo prima». Perché invece il collega non ha mollato? «Mi disse di aver percepito chiarament­e che la bambina voleva vivere, e che stava lottando insieme a lui».

«AVERE UN CUORE TRA LE MANI INCUTE RISPETTO. PER LA VITA DEL BAMBINO CHE DEVI SALVARE, E PER QUELLA DEL DONATORE»

Sergio Filippelli ha una moglie, medico anche lei, e quattro figli tra i 3 e i 14 e anni. Come si fa a portare avanti la propria vita e una famiglia, con così tante responsabi­lità? «Il mio lavoro è impegnativ­o ed emotivamen­te forte, certo sottrae del tempo al resto», risponde. «Tuttavia, ho preso l’abitudine di raccontare ai miei figli quello che faccio, e loro lo capiscono, ne sono contenti e orgogliosi. Spesso mi chiedono di conoscere i bambini che tratto, Super Matteo per esempio è un loro amichetto. Se capiscono che sono triste vogliono sapere che cosa succede in ospedale, e io spiego loro tutto quello che posso». Poi confessa: «Qualcuno forse penserà che sono io ad aiutare quei bambini, ma è il contrario. Loro mi insegnano ogni giorno il rispetto profondo per la vita. I loro cuori mi gridano di apprezzare il momento, l’immediatez­za, il qui e ora. Per poi cercare di proiettarm­i il più possibile nel futuro».

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