Ci vedo doppio?
Automi, cloni, cobot: robotica e AI aiutano l’uomo. Anche a capirsi
Robotica e intelligenza artificiale sono temi cruciali della nostra epoca, caratterizzata sia da una forte accelerazione tecnologica che dalle inquietudini e speranze a lei collegate. Puntuale, il Mudec di Milano presenta Robot.
The Human Project (dal 4/3), una mostra che, grazie ai curatori − la storica dell’arte Lavinia Galli, il ricercatore di biorobotica Alberto Mazzoni, della Scuola Superiore Sant’anna, e l’antropologo e docente universitario Antonio Marazzi − affronta l’oggetto-automa da tra diversi punti di vista: storico-artistico, scientifico e antropologico.
Obiettivo, raccontare il superamento delle barriere tra artificiale e naturale nell’interazione uomo-macchina: una relazione molto antica, che per secoli si è valsa di tecnologie meccaniche. Ma gli automi del Seicento esposti al Mudec, opere d’arte meccanica e scultorea, erano stati concepiti per meravigliare il pubblico: potevano muoversi, disegnare, suonare, o, come lo schiavo incatenato del collezionista e scienziato Manfredo Settala, sghignazzare e fare linguacce. Il pubblico, per quanto turbato, assisteva a uno spettacolo: tra uomo e automa il confine era netto.
Oggi, dopo lo sviluppo travolgente dell’elettronica, delle neuroscienze e dell’informatica, la distanza si è drasticamente ridotta: i computer progettati come robot imitano il funzionamento neuronale del cervello. E se non possiedono una coscienza possono lavorare con noi, se non al posto nostro (i “cobot” usati in fabbrica per i lavori manuali): fungono da badanti per gli anziani o aiutano nelle emergenze e nei disastri naturali, come ad Amatrice. La robotica applicata alla medicina produce integrazioni corporee, arti e mani dotati di movimento e di sensibilità che il corpo umano, dopo un certo periodo di tempo, riconosce come proprie. Progettato per aiutare il suo creatore, il robot è sempre più vicino all’uomo, vicinanza inquietante e straniante: se ci assomiglia troppo, se diventa il nostro specchio, ci pone dubbi profondi sulla nostra identità. Il lavoro di Ishiguro Hiroshi, studioso di intelligenza artificiale in forza al dipartimento di macchine adattive all’università di Osaka, lo dimostra, anche se involontariamente. La mostra del Mudec ospiterà, in video, la creazione che ha reso famoso lo scienziato giapponese, una sua copia speculare, ormai arrivata alla quinta edizione: l’androide Geminoid Hi 5, che lo scienziato utilizza, controllandone da remoto i movimenti con un computer, e prestandogli la propria voce, per lavoro. «È molto comodo, non sono costretto a viaggiare dappertutto per fare conferenze», ha spiegato Hiroshi, scherzando, ma non troppo. Non è l’unico androide realizzato da Ishiguro Hiroshi, che ha anche creato un androide femmina, clone della figlia, e altri, utilizzati all’università di Osaka. La speranza dello scienziato è che i robot, nell’interazione con gli esseri umani, sviluppino, nel loro sforzo adattativo, una sorta di coscienza. Così «riusciremo a capire meglio gli esseri umani». A noi europei questo progetto può sembrare inquietante, ma, come spiega Hiroshi, nella cultura giapponese, di origine animista, tutto ciò che esiste è dotato di anima, compresi alberi e rocce. Perché, allora, i robot, nostre creazioni, dovrebbero per principio esserne privi?
ENZO D’ANTONIO
GQITALIA.IT