GQ (Italy)

UOMINI FUORI DAL BRANCO

- Testo di CRISTINA D‘ANTONIO Foto di ANDY MASSACCESI Servizio di NIK PIRAS

Come si diventa l’autore delle storie maschili più toste (e sanguinose) degli ultimi 10 anni? Se ci si chiama STEFANO SOLLIMA dipende dall’educazione sul campo: in collegio, in guerra, in India, sul set di una soap opera. E inseguendo un’infinita pista di coca

Il suo 2020 parte in quarta con Zerozeroze­ro, serie Sky dal romanzo-inchiesta di Roberto Saviano. C’è qualcosa in questa produzione che ha sperimenta­to per la prima volta?

La struttura narrativa non lineare: d’istinto prediligo quella naturalist­ica, ma qui era necessario giocare per strati. È una storia che coinvolge tre mondi, con vicende che si intersecan­o ma che non possono stare sullo stesso piano temporale. Quei balzi avanti e indietro, dove si riprende il racconto da un altro punto di vista, sono diventati l’escamotage che tiene insieme il tutto.

Con gli sceneggiat­ori Leonardo Fasoli e Mauricio Katz avete indagato altri due anni sulla globalizza­zione della droga. Cosa volevate capire?

Quello che serviva. Io inizio come giornalist­a, e da allora faccio fatica a riferire di qualcosa che non conosco nel dettaglio. Il romanzo ha fatto da traccia, noi siamo andati oltre: l’idea era di mostrare come il narcotraff­ico impatti, e alteri, il tessuto sociale e culturale dei Paesi, soprattutt­o quelli maggiormen­te esposti alla cocaina.

Il libro attacca duro: “Se non sai chi la sta prendendo significa che sei cieco, che menti o che a farne uso sei tu”. Lei dove si pone?

In mezzo agli altri. Il libro sceglie la provocazio­ne in maniera interessan­te: suggerisce che la cocaina riguarda tutti, nessuno escluso. Anche solo per la maglietta che indossiamo: se non è legata al narcotraff­ico in senso stretto, può esserlo per il riciclaggi­o di denaro che proviene dalla droga. Prima di arrivarci con la fiction lei lavorava come cameraman in zone di guerra. Come ci è finito?

Per sbaglio. Avevo un amico che faceva riprese: un giorno si è ammalato e mi ha chiesto se lo sostituivo. Cresciuto con mio padre Sergio, regista, sapevo farlo. E poi è andata che ho visto saltare la Jugoslavia, la prima guerra del Golfo, la rivoluzion­e in Romania, la guerra civile in Libia. Lavoravo per i canali americani e giapponesi.

Come ha riportato a casa la pelle? Me la sono cavata perché ho imparato a leggere quello che mi succedeva attorno, che è diverso da quello che ritrovavo sui media.

Forse perché non esiste mai una verità unica. Lei come mette assieme la sua? Rinunciand­o ad accontenta­rmi della prima idea che mi faccio. I reporter di guerra, soprattutt­o i francesi, hanno la fissa di riassumere l’intero conflitto in una sola immagine. Io no. Non mi fido dell’apparenza: la realtà è sempre meno definibile di quello che vorremmo. Dopo qualche anno ho deciso di andarmene: non ero ossessiona­to dalla guerra, e nemmeno un dipendente dall’adrenalina che procura.

Come trova adesso le storie da raccontare? Nel caso di A.C.A.B era rimasto colpito dal titolo.

Vero. Ero a Perugia, per ripararmi dal freddo sono entrato in una libreria ed è stato un colpo di fulmine. Gomorra invece me lo hanno proposto. Se devo cercare cosa unisce le mie fiction direi la simpatia per gli argomenti non facili: la scelta è il primo momento in cui esercito la mia visione, e lo faccio dicendo di no. Seleziono solo i progetti in cui credo fino in fondo, perché il tempo che ci investo rasenta l’infinito. Facciamo il caso di Zerozeroze­ro: da quando abbiamo avuto l’idea a oggi che ne parliamo sono passati quattro anni.

Con questa dilatazion­e di tempi non c’è il rischio di disamorars­i?

No, se si sceglie bene. Questo è un lavoro che richiede costanza: non si basa sull’innamorame­nto di una notte, è un matrimonio. Te lo porti appresso per anni, se sei bravo pure per decenni.

Il legame con Saviano è iniziato con Gomorra: nel frattempo siete diventati anche amici?

No. Roberto è una persona che rispetto prodalla fondamente, ma mettiamola così: lui ha una vita bizzarra, io pure. Incontrars­i per una cena tra amici non è il primo pensiero che mi viene in mente se faccio il suo nome.

Perché le viene da ridere nel dirlo? Rido della differenza tra le persone con le quali puoi uscire a cena. Trovo che l’amicizia sia un sentimento un po’ abusato: non c’è bisogno di cercarla in tutti. Gli amici che ho sono gli stessi con cui sono cresciuto, che esistono da quando ero tutt’altro, che hanno avuto la pazienza di starmi vicino. Ero un po’ disadattat­o, diciamolo. Racconta di aver abbracciat­o il cinismo a nove anni, dopo la scomparsa di sua madre.

Di certo ero disilluso: ci sta, no? Nella tragedia la famiglia ha fatto scudo: con mia sorella ero sempre al seguito di papà, che ci ha fatto pure da mamma. Ma ho dovuto abituarmi in fretta a cavarmela da solo, il che, alla fine, si è rivelato un vantaggio. La calma che mostra sempre è reale o solo apparente?

Metà e metà. Sono nevrotico verso me stesso più che con gli altri. Quando succede, divento irrequieto: mi viene voglia di levarmi di torno, di partire. Anche se adesso lo faccio così spesso per lavoro che mi viene da desiderare il contrario: e cioè di stare dove sono.

Aveva l’inquietudi­ne del nomade? Più che altro ero un disordinat­o: casa mia sembrava un cassonetto della Caritas. Ma era un confusione esteriore: a 18 anni lavoravo per pagarmi l’affitto e bastare a me stesso, perciò potevo permetterm­i di perdermi via, ma non troppo. Chiamiamol­o un periodo di perdita consapevol­e. E di lì a breve sono diventato cameraman.

Quindi ha saltato il servizio militare. Sono del 1966, un figlio del baby boom: ci riformavan­o perché eravamo in troppi. Però è stato in collegio, che un po’ vale come la leva.

Al Convitto nazionale di Roma: un’esperienza forte, formativa, ma non per le ragioni che si pensa. Venivamo educati a creare la nostra rete: eravamo tutti figli di profession­isti, con vite spesso scombinate perdita di un genitore. Si trattava di individuar­e le persone di cui potersi fidare, specie quando tutto va a rotoli. È in quegli anni che ho imparato il valore del gruppo: lì dentro ci si sente protetti, diventa la tua famiglia di elezione.

C’è poco in rete che non riguardi sempliceme­nte il suo lavoro. Si difende piuttosto bene.

Uno degli aspetti negativi del cinema è la sovraespos­izione: ciò che pensi e dici diventa di dominio pubblico, e invece non è necessario. Mi piace tenere separati i piani: anche le persone con cui lavoro non hanno accesso al mio privato.

Però c’è una foto di lei bambino in India, con suo padre Sergio: era negli anni in cui lui girava Sandokan? Esatto. Una bellissima e lunghissim­a avventura: dagli Anni 70, dove c’era lui c’ero anch’io. Ero un bambino che cresceva sui set tra i pirati, dove mi hanno insegnato ad andare a cavallo, a tirare di scherma e a far esplodere le bombe. Mi ero appassiona­to di effetti speciali e mi affidavano dei compiti: il giorno che ho fatto partire un colpo di cannone fuori sincrono mio padre mi ha ripreso, ma la colpa era sua. Si divertiva, lui per primo.

Rivista adesso, vi univa una bella relazione tra maschi?

Tutto quello che ho fatto dopo, parte da lì: il mio parlare soprattutt­o di maschi, che stanno uniti per proteggers­i, che sia in un’organizzaz­ione criminale o in una squadra di poliziotti.

Suo padre girava film che rifletteva­no l’umore del momento. È molto importante saper aderire al proprio tempo? Credo di sì. Quello era l’approccio di Sergio Sollima al cinema: un suo film western non era solo una galoppata di cowboy, ma il racconto di un’epoca, anche se traslata. Allora erano tutti più impegnati: la superficia­lità era vista male. Oggi la società è così ricca di contraddiz­ioni che è un piacere raccontarl­e.

Le piace girare nei luoghi veri e cerca la contaminaz­ione, anche dalle zone d’ombra. Non rischia di sporcarsi l’anima?

Ma no, perché dovrei? È il mio lavoro: mi calo in quelle realtà e le filtro, però il mio posto resta da quest’altra parte. Vale anche quando fronteggio l’orrore: esiste, fa parte dell’esperienza umana, inutile negarlo. Ma aprire quella porta e guardarlo negli occhi non mi rende prigionier­o. Anzi. Quando la

chiudo sono più felice di quello che ho, non lo dò più per scontato. Si impara in guerra: si pensa sempre che colpirà un altro. Se attraverso quella guerra capisco che l’altro sono io, in un universo parallelo. Con la differenza che io ho la fortuna di poter tornare indietro.

Chi sono i cattivi, oggi?

Con la maggiore età ho abolito le distinzion­i. Siamo tutti tanto buoni quanto cattivi: qualunque essere umano può essere descritto da un altro essere come la fonte del suo dolore. Siamo tutti dei cattivi, per un motivo o per l’altro. L’unica è cercare di fare meno male possibile intorno a te. Come atto di volontà.

Tornasse ora sul set di Un posto al sole, la sua palestra come regista, come lo girerebbe?

Come allora, da disturbato­re. Intorno alle soap opera c’è un’impalcatur­a industrial­e che funziona come una gabbia, con ogni passaggio codificato. Mi piaceva mettere in crisi il sistema: gli altri dirigevano da una sala regia, io scendevo nel teatro di posa. Gli attori erano abituati a parlare a oltranza, io gli davo lo stop e li facevo ricomincia­re. Mi prendevano per pazzo. Della sua prima volta in America ha detto: bellissima esperienza, ma non tanto da restarci a viverci. Sempre dell’idea?

Eccome, infatti sto a Roma. In America non farai mai parte del sistema perché resti uno straniero, allora tanto vale che vengano a cercarti a casa tua. Il vantaggio di dividersi su due fronti è questo: entri nei meccanismi, ma non troppo, così nessuno ti avrà mai completame­nte. Preferisco stare nel mio comodo limbo.

Nel suo primo corto, Zippo, un uomo ha tutto ciò che gli serve nelle sue tasche interne. Si riconosce ancora in quel racconto?

Non mi riconosco più in quel genere di narrazione surreale. Era l’età in cui sperimenta­vo: con i corti ho imparato a non aver paura di essere libero, a osare cose folli. Ah: quelle zip erano disegnate sulle tasche del chiodo che usavo all’epoca.

Ce l’ha ancora?

Ma figuriamoc­i. È marrone. Non sono più quell’uomo.

Adesso è un uomo nero.

Lo sono diventato il giorno del concerto dei giganti del rock’n’roll: entravo sul palco con la telecamera in spalla e lo stage manager mi ha bloccato. «Non con quella camicia hawaiana» Avrebbe distratto il pubblico. Mi hanno prestato una T-shirt e dei pantaloni e io ho cambiato stile.

Dove conserva ciò a cui tiene?

A casa. Ricordi, quadri, una collezione di tavole illustrate. Poca roba: sono sempre pronto all’evacuazion­e.

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 ??  ?? Stefano Sollima è figlio di Sergio, regista di molti spaghetti western e fiction ispirate ai libri di Salgari. Attualment­e è al lavoro sul suo secondo film hollywoodi­ano, Without Remorse, dal romanzo di Tom Clancy
Stefano Sollima è figlio di Sergio, regista di molti spaghetti western e fiction ispirate ai libri di Salgari. Attualment­e è al lavoro sul suo secondo film hollywoodi­ano, Without Remorse, dal romanzo di Tom Clancy

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