FUOCO E FIAMME
Forse si poteva evitare la tragedia dell’australia, dando retta agli aborigeni. Parola di un pompiere italiano emigrato lì
SE LA CULTURA DEGLI ABORIGENI AUSTRALIANI FOSSE STATA RISPETTATA DI PIÙ FORSE L’AUSTRALIA
AVREBBE POTUTO CONTENERE LA TRAGEDIA AMBIENTALE DEI MASTODONTICI INCENDI
CHE L’HANNO DEVASTATA. A TU PER TU CON IL FUOCO:
RACCONTO DI UN ARCHITETTO ITALIANO DIVENTATO POMPIERE NELLE CAMPAGNE DEL NUOVO GALLES DEL SUD
«A Bundanoon (città che era diventata famosa per essere stata, nel 2009, la prima al mondo a vietare la vendita di acqua in bottiglie di plastica, ndr) conviviamo ancora con l’odore di bruciato causato dai giganteschi incendi che hanno colpito l’australia a partire dal giugno scorso, per intensificarsi in autunno e proseguire, in alcune zone, tuttora. Noi siamo nel Nuovo Galles del Sud, a un centinaio di chilometri da Sydney. In molti punti il Morton Park, alle nostre spalle, continua ad ardere. La gente ripara le case distrutte dal fuoco (in tutta l’australia il bilancio ammonta a oggi a 2000 abitazioni andate in fumo, ndr) e ammonticchia ai lati delle strade erba e foglie per canguri, wombat, koala e opossum, che non hanno più nulla per sfamarsi. Il parco è nero, carbonizzato. Tutti hanno gli occhi puntati su Fires near me, l’app che lancia l’allarme quando sta per arrivare il fuoco. Viene consultata con la stessa frequenza con cui in Italia si dà un’occhiata al meteo». Chi racconta è Roberto Gnecchi Ruscone: 21 anni fa è emigrato a Sydney dove ha fatto l’architetto fino al 2010, quando ha deciso di trasferirsi in campagna con la famiglia, liberarsi di un lavoro insoddisfacente e ricominciare da zero a 46 anni. Oggi, oltre al doppio passaporto ha anche un doppio lavoro: è un pompiere. La professione l’ha imparata lavorando un paio di settimane al mese, per tre anni, nei pozzi di gas naturale a Nord. Lì è stato addetto alla protezione di un’infrastruttura per l’estrazione del gas e della pipeline per trasportarlo al porto. Roberto è stato testimone della peggiore catastrofe ambientale mai registrata in Australia: l’ondata di incendi che dall’inizio dell’estate scorsa ha continuato a devastare 11 milioni di ettari di vegetazione, uccidendo più di mezzo milione di animali e oltre 30 persone. Da pompiere volontario a Bundanoon, nel corpo Rfs (Rural Fire
Service), a cui spetta il controllo delle aree rurali, è diventato professionista nei Fire and Rescue, i cosiddetti townies, che invece lavorano sulle città.
L’estate 2019-2020, che nella parte centro-orientale dell’australia va da ottobre a febbraio, è stata la più calda e secca da un secolo a questa parte. Le condizioni meteorologiche sono mutate per fattori legati al cambiamento climatico, che ha prodotto un’eccezionale ondata di calore terrestre e marino: a dicembre (il nostro luglio) la temperatura media era 42-45°C, in un contesto di siccità estrema. Due elementi, calore e siccità, che uniti portano a un’elevata infiammabilità della vegetazione, già molto alta nel bush australiano. Il terzo fattore fuori controllo è il vento. Roberto ha visto molto da vicino di cosa è capace, quando un vasto, veloce e violento incendio proveniente dal parco, accompagnato da un imprevedibile incrocio di correnti d’aria, ha infiammato Bundanoon
e i paesi vicini, creando enormi danni alle case e all’ecosistema.
Nel novembre e nel dicembre scorsi gli stati del Queensland, Nsw e Victoria si sono trovati tutti sotto attacco. Perfino Sydney, una città di mare, soffocava a causa degli incendi per la tossicità dell’aria, peggiore che a Pechino. L’intera regione orientale bruciava simultaneamente da nord a sud, un evento mai accaduto prima. La storia locale dell’incendio di Bundanoon aiuta a raccontare il dramma dell’intera nazione.
«Sapevamo che il fuoco poteva arrivare. E anche se gli australiani sono abituati a questo fenomeno – perché la vegetazione locale è sempre pronta ad ardere, ne ha addirittura bisogno per rinnovarsi ogni estate – erano ansiosi, il che non è da loro. In quel periodo, in gennaio, andavamo in giro a spegnere fuochi che nascevano ovunque nei dintorni. I volontari erano impegnati da mesi a combatterli nel bush usando la tecnica del back burning». Si tratta del cosiddetto “incendio controllato”, che viene diretto contro quello principale affinché si fermi quando non trova più materia da ardere. Tecnica rischiosa, perché le fiamme possono sfuggire di mano, ingrossandosi invece di spegnersi. «Ci sentivamo accerchiati», continua Roberto Gnecchi Ruscone. «Così, pochi giorni prima che le fiamme entrassero in paese – dove tra l’altro molte case sono in legno –, è stata indetta un’assemblea cittadina. Gli abitanti erano chiamati a decidere se restare o andarsene. Una scelta sofferta. Molti, almeno duemila persone, hanno fatto i bagagli e sono partiti. Sembrava l’arca di Noè: da queste parti tutti hanno cavalli, mucche, galline e animali domestici, categoria che comprende pappagalli e serpenti. File di auto e di furgoni carichi di bestie d’ogni tipo hanno intasato le strade. Chi è rimasto, intanto, ha iniziato a preparare la sua casa». Roberto Gnecchi Ruscone descrive con minuzia
questa operazione: spazzare perfettamente il giardino e tenerlo pulito, ricoprire le finestre di materiale isolante riflettente, rifornirsi d’acqua, procurarsi le pompe, tenersi pronto. E aspettare.
«Sai che l’incendio può arrivare, ma non quando. Io ho fatto andare via la mia famiglia e sono rimasto solo. Un pomeriggio le dita di fuoco sono partite appiccando fuoco. Le fiamme sono arrivate a più di trenta metri di altezza perché le foglie roventi hanno incendiato la cima degli alberi più alti. Eravamo appena una decina, con solo due mezzi. Abbiamo dato l’allarme, chiamato i pompieri dei dintorni e ci siamo diretti verso il paese per presidiarlo. Ma le fiamme, accese da migliaia di puntini neri di brace infuocata portati dal vento, ci hanno superati: era ovvio, dato il caldo eccezionale, che tutto prendesse fuoco. Bundanoon era incendiata, dal Morton Park e si sono allungate su una collina. Abbiamo subito portato il camion sul lato nord di Bundanoon seguendo la strada principale. Per tutto il giorno, una grande nuvola rosa ha continuato a ingrandirsi e a salire: sembrava un tramonto fuori orario, ma era fuoco. Nel tardo pomeriggio ci hanno mandati a casa, convinti che la nuvola ci avrebbe alcune case di legno stavano già bruciando». È allora che Roberto ha avuto paura, non per la percezione del pericolo, ma per la responsabilità caduta all’improvviso sui pompieri: bisognava chiamare il centro operativo, dare le dimensioni e l’ubicazione dell’incendio, indicare le vie di fuga, evacuare gli abitanti. Solo dopo si sarebbero potute spegnere le fiamme. «Ma il programma è saltato: dovevamo spegnere nuovi incendi, perché in pochi minuti il fuoco aveva conquistato anche la abbandonati. Quando però da sud è arrivato il southernly, un vento improvviso e veloce che ha appiattito le nuvole sul terreno, siamo subito tornati alla nostra postazione. Col girarsi del vento il dito di fuoco è diventato la punta dell’incendio, di colpo gigantesco. Poi la nuvola si è abbassata su di noi: foglie, cortecce e rami di eucalipto incandescenti piovevano ovunque,
strada principale. Impossibile incanalare lì le centinaia di macchine che via smartphone avevano nel frattempo ricevuto da Fires near me l’ordine di evacuazione. Dovevamo dirigerle verso un’altra uscita. Il tempo di montare il rubinetto e azionare le pompe e il fuoco ci aveva scavalcati ancora, bloccando anche la seconda via d’uscita. Ne restava una sola. Duecento macchine, radunate nel campo di cricket, aspettavano il via libera. Abbiamo organizzato una carovana insieme alla polizia e incanalato il traffico nella giusta direzione, perdendo tempo prezioso. Solo a quel punto abbiamo potuto precipitarci in paese a spegnere le fiamme delle case che ardevano, cercandole alla cieca perché c’era fumo ovunque e le comunicazioni erano saltate. Ogni tanto incontravo persone che conoscevo, che guidavano nel panico, e mi fermavo per dirigerle, con una fermezza che di solito non mi appartiene. Infine abbiamo raggiunto le abitazioni: erano sotto grandi eucalipti, che lasciavano cadere foglie e cortecce incandescenti, una sorta di lava vegetale. Per tutta la notte abbiamo spento fuochi, avvolti nel fumo acre, quasi irrespirabile, dell’eucalipto.
Finché il vento è calato. Gli incendi si sono calmati, dandoci il tempo di spegnere i mille focolai in paese. Era finita».
Quando la stagione secca è finita il colpo accusato è stato durissimo. I danni prodotti – materiali, psicologici e ambientali – sono enormi. La tecnica dell’incendio preventivo al bush (hazard reduction), praticata in tutte le zone colpite compresa Bundanoon per evitare la formazione di nuovi focolai, lascia intatti solo gli alberi più alti. In questo modo le piante piccole, di cui si cibano gli animali, spariscono e l’intero ecosistema collassa. In più, lo Stato continua a mantenere una posizione scettica sul tema del cambiamento climatico ed è quindi poco propositivo sulle contromisure. La situazione è nera, insomma, come gli alberi carbonizzati del Morton Park.
«Un segno di speranza c’è», aggiunge Roberto Gnecchi Ruscone. «Il Governo si sta timidamente aprendo alle millenarie tecniche aborigene di controllo del fuoco, finora ignorate, utili anche per rigenerare la terra. Gli aborigeni infatti incendiano spesso il bush, nelle stagioni giuste e in aree ridotte. È un fuoco lento che si estingue da solo, mai più alto del ginocchio e a temperature non eccessive, che preserva i semi e le piante e lascia vie di fuga agli animali. È quello che chiamano “fuoco freddo” (cool burns). In questi anni si è fatto il contrario o non si è fatto nulla. Ora è il tempo di prendersi cura della terra, cambiando radicalmente impostazione. Non so se ce la faremo, ma è l’unica strada percorribile».