Musica, fiction, gender, stile: il futuro-no-label delle donne è adesso
Attivista feroce, tra le voci più creative e progressiste della sua generazione, per Janelle Monáe − cantante con 8 nomination ai Grammy Awards, produttrice, attrice capace di passare dal dramma al western, Karl Lagerfeld impazziva per lei − ogni progetto artistico è un’occasione per puntualizzare il suo impegno sociale su temi come il razzismo, l’emarginazione di classe, il diritto all’orientamento sessuale.
Monáe è la protagonista di
(su Amazon Prime dal 22 maggio), la serie sviluppata dal podcast di Eli Horowitz e Micah Bloomberg, che per due anni hanno contrapposto le voci di Catherine Keener e Oscar Isaac, una counselor del governo e un soldato con disturbi mentali. Personaggi di fantasia, che hanno generato la fiction interpretata da Julia Roberts e, adesso, da Janelle Monáe.
Conosceva l’antefatto?
Dopo aver visto la prima stagione, sono andata a cercare il podcast. Perciò, quando mi hanno proposto il ruolo, ho accettato al volo, anche se avevo altri progetti in corso e ho dovuto riorganizzare il piano di lavoro. L’ho fatto perché non ragiono a compartimenti stagni − oggi penso alla musica, domani al cinema −; mi considero un’artista, e questo significa essere liberi di utilizzare qualsiasi mezzo espressivo per narrare delle storie. Tutto quello che faccio è un’esplorazione di me stessa, da un lato, ma dall’altro anche un modo per dare sostegno alla mia comunità, alle donne di colore e al binarismo di genere.
Quindi quale ruolo interpreterà?
Sono Jackie, una donna che ha perso la memoria e cerca di ritrovare la propria identità. La prima stagione di puntava a sciogliere l’enigma di una catena di eventi, la seconda cerca di capire perché i personaggi 46 / MAGGIO-GIUGNO 2020 si trovano in un determinato luogo e come ci sono arrivati. Da questo punto in poi la storia si allontana dalle 12 puntate del podcast, che è iniziato nel 2016, e prosegue con una narrazione inedita.
Ha appena ricevuto un premio dalla Human Rights Campaign. Sarà Dorothy Pitman Hughes nel biopic The Glorias: A Life on the Road. È giovane con una carriera polivalente. Come sceglie a quali ruoli dedicarsi? Cominciando da quelli che mi stimolano di più. Come attrice accetto i copioni da cui posso imparare qualcosa di originale e do la priorità al regista o agli attori con i quali vorrei condividere un’esperienza. Scelgo un progetto perché l’argomento necessita attenzione: è il caso di il film sulle tre scienziate afroamericane che lavoravano alla Nasa negli Anni 60. E poi c’è il capitolo “gioco”: dico di sì quando la questione mi pare divertente, perché non so quanto starò a questo mondo e quindi non voglio perdere tempo. Mi piace lavorare con persone che rispettano la vita e che trovano importante usarla in modo produttivo, anche se alcuni aspetti di questo mestiere sono molto tediosi. Di sicuro mi diverto di più in sala di registrazione che su un set.
ROBERTO CROCI
Per anni ha vestito in bianco e nero e lo smoking era la sua uniforme. Perché? Perché rappresenta il mio legame con la classe operaia. Mi spiego: mia madre era un’addetta alle pulizie, il mio padre biologico raccoglieva rifiuti, il mio patrigno lavorava in Posta. Sono cresciuta vedendoli faticare, tutti i giorni, ciascuno con la sua uniforme, sempre fieri di avere un lavoro, senza mai lamentarsi. Indosso il bianco e nero per rendere loro omaggio. Ai concerti, prima di salire sul palco, parlo con tutti quelli che indossano un’uniforme: magari solo per un piccolo scambio, perché sappiano che io li vedo, che il loro lavoro è apprezzato, che la loro presenza è importante per me. È questo il senso dell’uniforme: siamo tutti connessi, è assurdo giudicare una persona in base ai soldi che guadagna.
In quali cause si sta impegnando ora?
È un momento storico delicato: politicamente è un periodo incerto in tutto il mondo, umanamente occupiamo uno spazio pieno di forza e possibilità creative. Le donne hanno sempre più il controllo in molte situazioni: siamo più disponibili a collaborare lasciando da parte la competizione e il giudizio. Stiamo tutte diventando più naturali, più sincere. C’è molto lavoro da fare ma bisogna approfittare dei momenti difficili per creare l’opportunità di un mondo migliore per le prossime generazioni. Personalmente lotto tutti i giorni contro chi vuole chiudermi in una gabbia, chi mi critica perché non sono abbastanza femminile, e chissà poi cosa vuol dire. Combatto i cliché, le definizioni. Androgina? Cosa significa? Cerco di cancellare le parole che definiscono gli stereotipi sulle identità di genere. Vivere in modo diverso è pericoloso, ma ne vale la pena.
Per esempio: nel 2010 ha creato la Wondaland Arts Society. Racconti cos’è. Wondaland è un posto magico, dove tutto può accadere e dove la mia famiglia artistica si può esprimere. È un collettivo, un punto di incontro per le persone che vogliono ridefinire la propria impronta di esseri umani, condividere idee e costruire un futuro. È la mia casa di produzione, la mia etichetta discografica, è tutto quello che voglio perché per me la verità si può sintetizzare in una semplice formula: Truth = Love × Imagination.
Con Wondaland ha organizzato una distribuzione di cibo per le vittime del Covid-19. È importante fare la propria parte. Wondaland è nata ad Atlanta, nel Sud degli States: è una città che amo perché guarda verso il futuro. Qui sono nati i Black College: Morehouse, Clark, Spelman, Morris Brown, Atlanta University. Sono le università per la gente di colore: chi si diploma qui contribuisce a reinventare l’imprenditorialità di noi Black American.
Cosa le dà un film rispetto a un disco? In un film interpreto una parte e divento quel personaggio: faccio parte di un ensemble che lavora per creare una storia. Il mio contributo è relativo: un attore, seppur bravo, non è mai indispensabile. Quando penso a un album, invece, tutto cade sulle mie spalle: il risultato dipende da quello che dico, le scelte che faccio. Ogni riff di chitarra, ogni testo, ogni grafica porta il mio nome. Quando creo musica c’è molta più pressione, forse perché lascia un’impronta più autobiografica.
È quello che ha sempre pensato di fare? No, perché da bambina avevo altri problemi: ero molto coraggiosa, molto più di quanto lo sia ora, ma il mio futuro era incerto, anche se mia madre mi ha cresciuta con amore. Non avevo paura di niente.
Invece oggi cosa la spaventa?
Ho paura di lasciare liberi i miei pensieri: so che mi porterebbero a perdere tempo prezioso, riducendo le mie potenzialità creative. Il talento può portarti lontano, ma non è tutto: ci vuole determinazione. Ammiro Stevie Wonder perché è sempre riuscito a parlare di amore. Prince è stato il mio modello perché sapeva come surfare sulle stronzate di Hollywood e dell’industria musicale, senza distrarsi dai suoi obiettivi. Da lui, che ha sempre lottato per l’indipendenza musicale come forma di protesta contro il sistema, ho preso la forza per ridefinire il ruolo della donna di colore nell’industria musicale: ecco perché faccio musica. L’establishment cinematografico di per sé non mi interessa, ma posso cambiarlo dall’interno: ecco perché recito. Mi piacciono le barricate contro le istituzioni di potere: cercate la donna più agguerrita e troverete me.