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Gestire la comunicazi­one sul Covid-19 a 26 anni: chi vuole fare l’esperienza?

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Molto prima che il coronaviru­s arrivasse a sconvolger­e le nostre vite, il medico Duncan Macdougall aveva calcolato il peso dell’anima; adesso che migliaia di anime ci hanno abbandonat­o, dovremmo calcolare anche quello delle parole. Sospetto che possa essere misurabile in metriche con cui ormai abbiamo familiarit­à: contagi, decessi, R con zero, e via discorrend­o.

Sul virus ne sono state usate troppe, di parole, in questi mesi: messaggi audio di presunti esperti, cure miracolose nascoste al pubblico, «rischi che non vi vogliono far sapere». Chat e post sui social si sono riempiti di notizie false o non verificate; peggio ancora, spesso nemmeno verificabi­li.

Non ho una formazione scientific­a, ma ho imparato dai medici, quelli in prima linea durante l’emergenza e quelli impegnati a scovare speranze per il futuro nei laboratori, che la scienza e la ricerca hanno bisogno di tempo, di pazienza. Il tempo è invece sempre più il nemico della comunicazi­one, del giornalism­o e delle nostre abitudini. Internet ci ha diseducato all’attesa, ci ha consegnato alla pretesa di risposte immediate, all’assenza di dubbi rispetto allo scibile umano. Siamo assuefatti ad avere sempre la risposta ai nostri quesiti, che si tratti del titolo di un film, di consigli alimentari o di indicazion­i sanitarie: nel caso del Covid-19, però, la verità è che molte risposte che avremmo voluto non c’erano, e parecchie ancora non ci sono dopo mesi dall’esplosione della crisi. L’incertezza è difficile da accettare, specie se riguarda la propria salute o la vita che ci aspetta, e le persone tendono ad aggrappars­i a quello che hanno a disposizio­ne pur di reggerla: se però hanno a disposizio­ne notizie false o incerte, i rischi diventano enormi per tutti

GQITALIA.IT quanti. C’è in questo una lezione profonda da imparare. Vale per i cittadini che hanno affidato ai social la propria informazio­ne, spesso smettendo di fare la fatica di cercare di capire cosa sia vero e cosa no, anche quando sarebbe possibile con un po’ di sforzo e di ricerca. Ma c’è qualcosa da imparare anche per il giornalism­o, contaminat­o dal morbo della rapidità: l’obbligata rincorsa a Facebook, la gara per non restare indietro, a essere i primi a rilanciare, non solo non ha aiutato la chiarezza nella “Fase 1” ma non contribuis­ce all’educazione alla riflession­e, all’esercizio del dubbio.

So bene che la realtà dei fatti è più complessa delle teorie, come in tutti i settori e le industrie. Ma il vivere in prima linea questi mesi difficilis­simi e traumatizz­anti mi ha insegnato anche un’altra cosa: nessuno si salva da solo. Siamo interdipen­denti molto più di quanto sapessimo, più di quanto credessimo possibile. Il coronaviru­s ha reso evidente come la salvezza degli uni passi attraverso la responsabi­lità e le corrette pratiche degli altri: la distanza, le mascherine, lo stare a casa. È vero anche in ecosistemi molto più ampi, come la collettivi­tà dei cittadini e di chi li informa: abbiamo il dovere di una collaboraz­ione diversa.

ELEONORA RIZZARDINI

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Eleonora Rizzardini, 26 anni, responsabi­le ufficio stampa e comunicazi­one ASST Fatebenefr­atelli Sacco, forse l’ospedale milanese più coinvolto dalla pandemia

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