ECCO PERCHÉ SIAMO DIVENTATI L’ITALIA DEI “CATTIVISTI”
L’Italia è un Paese cattivo. Cattivo al punto da ridicolizzare i Radicali (il partito di Pannella) perché in quel partito c’è chi si occupa (invece di far politica) di gente che sta male, cerca e non trova soccorso nelle strane vicende del vivere e del morire. Cattivo al punto da ritenere che ogni vera riforma debba essere una punizione. È bene tutto ciò che toglie, come è avvenuto con retribuzioni, riforma della Scuola, riforma delle pensioni, compensi con modalità tipo voucher.
LA CATTIVERIA era latente ai tempi in cui la forza lavoro era grande, i sindacati erano un serio ostacolo alle punizioni. Ma ricorderete, per decenni, ogni anno, imprenditori anziani e imprenditori giovani si riunivano in località balneari per dichiarare, nell’anno cattivo e nell’anno buono, che “il lavoro costa troppo”, mentre altrove, i Paesi industriali fiorivano, con salari molto più alti. Nessuno si sarebbe sognato di dare spallate ai sindacati, che anzi, a quel tempo, sono serviti come barriere contro il terrorismo politico locale. Ma la lunga attività per smantellare il lavoro è cominciata presto sia buttando avanti le immagini di un futuro che non sarebbe mai arrivato, sia declassando il lavoro al ruolo di “palla al piede” che impediva i grandi investimenti stranieri, proprio mentre l’esportazione italiana toccava i suoi livelli più alti. Chi poteva, ha fatto lavorare anche il sabato e la domenica. E poi, quasi all’improvviso, ha delocalizzato, ha fatto trovare, un lunedì dopo l’altro, la fabbrica vuota e le macchine vendute, ha ceduto scatole vuote a giapponesi che si sono ritirati presto, e – unica potenza industriale al mondo – ha trasportato a Detroit tutta la Fiat, e tutto il suo indotto, meno alcune officine locali. A Detroit, la Fiat Chrysler fa molto bene per il Pil e per il lavoro americano. Nasce il problema del lavoro. Lo hanno estirpato, fabbrica per fabbrica, settore per settore (solo un po’di piccole e medie imprese sono rimaste fuori dal gioco) e il lavoro, ovviamente, non c’è più. Adesso si usa discuterne come di una cosa astratta, una modalità del processo di formazione dei giovani, un ologramma a cui dovrebbe essere legato un compenso. Quel compenso c’è e non c’è (nelle varie, fantasiose forme di precariato) e non si capisce bene se l’Italia non riparte (piace molto la metafora ferroviaria) perché non c’è il lavoro, o se il lavoro non c’è perché l’Italia non riparte. E allora, di volta in volta, c’è chi promette il lavoro per ripartire e chi annuncia che stiamo per ripartire, così torna il lavoro. Colpisce un fatto. Col tempo ci siamo talmente allontanati dal lavoro da averne perso la pratica e non saperne più parlarne sapendo di che cosa. Per coprire l’imbarazzo, si perdono settimane sulla timbratura del cartellino (con l’umiliazione del vigile in mutande, non del suo capo) ma nessuno ci dice quale dovrebbe-potrebbe essere il lavoro del futuro, come si comincia, dove si svolge, sulla base di quale preparazione. L’importante però è tenere il lavoro sotto scacco. Negli ospedali, infermieri e medici sembrano minatori, fiaccati dalla stanchezza, con organici tagliati e orari da irresponsabili. A scuola gli insegnanti vengono picchiati dai ragazzi o dai genitori dei ragazzi, mentre i più giovani si dedicano al bullismo. Fuori sostano a migliaia, da anni, i docenti sempre esclusi dal concorso di prima e da quello di dopo. Dopo il lavoro che non c’è, ci sono (ancora un certo numero) gli esodati, che hanno perso il lavoro ma, come con un traghetto partito un po’ prima, non sono saltati in tempo sulla pensione.
PARE CHE ADESSO per loro ci sia un prestito bancario da restituire come se fosse un loro lusso. E dopo gli esodati, ci sono i pensionati, ovvero una folla di gente un po’troppo anziana che blocca il futuro dei giovani (che però non lavorano e non sono in grado di contribuire o di avere contributi). Una immensità di pensionati riceve somme mensili così piccole da fare notizia e scandalo. Ma si aspetta ancora l’esperto che chieda perché. Non dicevano tutti gli esperti (salvo pochissimi) che il lavoro costava troppo in Italia, più di ogni altro Paese? Evidentemente era una affermazione falsa. Evidentemente molto lavoro era pagato meno, molto meno del dovuto a una grande quantità di persone, altrimenti non ci sarebbero così tante pensioni che fanno scandalo per la loro modestia. Piccoli o grandi, i pensionati restano, finché vivono (problema che preoccupa molto la Previdenza) col cuore in gola perché sanno, come sanno tutti gli altri italiani in ogni settore, che ciascuna riforma è una punizione, un taglio che finalmente ci voleva per qualche ragione formatasi in un lontano passato e mai sanata. Disturba i puniti il forte senso morale delle parole con cui di solito si annuncia il taglio. Senza “riforme” che portano tagli e punizioni memorabili (che faranno ripartire l’Italia) un governo che governo è? E un Parlamento a che cosa serve?