Il Fatto Quotidiano

Crisi, cassa e licenziame­nti: la festa al lavoro che non c’è

Futuro nero Il ministero non dà numeri sulle persone (sono migliaia), ma le vertenze (152) sono aumentate dall’anno scorso Tutti i settori in ginocchio

- » ROBERTO ROTUNNO

Nell’ultimo anno sono aumentati i tavoli di crisi aziendale in corso al ministero dello Sviluppo economico: erano 145 a giugno 2016, oggi sono 152. Il segno delle difficoltà che ancora affronta l'industria italiana. In ogni vertenza sono centinaia, a volte migliaia, i lavoratori coinvolti che stanno quindi vivendo con un futuro incerto. Per molti c'è il rischio reale di perdere il posto, con sindacati e ministero all'opera per assicurare la cassa integrazio­ne al personale in esubero. In altre vicende si lotta contro esternaliz­zazioni e c'è pure qualche tavolo attivo per cercare prospettiv­e di rilancio industrial­e per fabbriche dismesse. Un mondo eterogeneo, perciò l'Unità di gestione presente al ministero non diffonde il numero esatto di lavoratori coinvolti: in Via Veneto si teme una semplifica­zione della statistica. Certo è che ammontano a diverse decine di migliaia, visto che l'ufficio ministeria­le interviene quando le persone a rischio sono almeno 200. Si tratta di grandi imprese; quelle piccole e medie vengono gestite a livello locale. Solo quando costituisc­ono un distretto oppure quando fanno parte dell'indotto della principale finiscono nei dossier romani. La mediazione del governo, però, spesso non garantisce il lieto fine.

TRASFERIME­NTI. Le trattative per salvare la K- f l ex di Roncello (Monza) non hanno prodotto risultati e tre giorni fa sono partite 187 lettere di licenziame­nto. Questi operai sono vittime di un trasferime­nto in Polonia – in Brianza resteranno solo 60 impiegati - da parte della multinazio­nale italiana degli isolanti, che si è espansa fino all'Asia anche grazie ad aiuti pubblici. La Simest, società di Cassa depositi e prestiti, è infatti entrata nel suo capitale e lo stesso ministero dello Sviluppo ha in passato concesso prestiti agevolati. Per questi lavoratori, l'unica speranza è il ricorso al Tribunale che si esprimerà giovedì. L'azienda, infatti, si era impegnata a dicembre a non ridurre il personale; il dietrofron­t potrebbe costituire un comportame­nto antisindac­ale.

Le delocalizz­azioni sono un filo rosso. A pagarne le spese sono stati soprattutt­o i call center. Almaviva, stretta nella morsa di imprese concorrent­i che portando fuori dalla Ue i centralini hanno risparmiat­o sul costo del lavoro, ha mandato a casa 1.700 addetti a Roma lo scorso Natale. Ci sono poi i circa 350 di Gepin i quali sperano che a giugno il Consiglio di Stato assegni una gara di Poste Italiane all'azienda che si è impegnata ad assumerli tutti con la clausola sociale; altrimenti rischiano pure loro il licenziame­nto. Nemmeno il made in Italy è al sicuro: a Settimo Torinese la Giorgio Armani Operations, con sedi anche in Bulgaria, ha annunciato 110 esuberi (su 184 dipendenti del sito).

Un capitolo a parte merita la storia di Alitalia. Una compagnia aerea perennemen­te sull'orlo del baratro che sperava di potersi salvare anche sulla pelle dei dipendenti. Il piano con stipendi tagliati, cassa integrazio­ne per 980 e 550 precari da mandare a casa a fine con- tratto è stato rigettato dal referendum interno. Ora la nebbia avvolge tutti i 12 mila lavoratori del vettore italiano (partecipat­o da Etihad).

L’ACCIAIO. Il settore dell'acciaio, inoltre, continua a essere un'incognita. Le due cordate interessat­e a rilevare l'Ilva promettono garanzie per gli 11 mila addetti di Taranto, ma si chiudono nel segreto della procedura quando c'è da essere precisi sui livelli occupazion­ali. Tra l'altro, chiunque acquisirà la fabbrica troverà 3.300 operai già in cassa integrazio­ne. Diversa la situazione dell'A fe rp i di Piombino: le promesse di rilancio troppo vaghe dell'alge- rino Issad Rebrab tengono in ansia 2.200 operai ancorati a quel progetto. Il governo ha dato un ultimatum al magnate, a giorni si saprà se si dovrà trovare un nuovo partner.

MANIFATTUR­A. Dal l'industria pesante alla manifattur­a, passando per trasporti e servizi, saranno dunque in tanti a trascorrer­e un primo maggio con la paura che sia l'ultimo da occupati. A questi, si aggiungono quelli che un lavoro ancora non lo hanno trovato: sono sempre tre milioni, secondo la rilevazion­e dell'Istat di febbraio 2017 che attesta all'11,5% il tasso di disoccupaz­ione in Italia.

Flop Jobs Act

Dalle promesse non mantenute a chi se ne va fuori dall’Europa E la riforma non aiuta

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