Il Fatto Quotidiano

Era un prerequisi­to Ora l’onestà diventi programma politico

- » PETER GOMEZ

Tutti ripetono che l’onestà in politica è un semplice prerequisi­to. Secondo questo punto di vista, ogni tentativo di trasformar­e l’onestà in programma di governo è destinato a fallire. Anche perché in qualsiasi maggioranz­a è inevitabil­e che prima o poi saltino fuori delle mele marce. E che quindi i sedicenti onesti finiscano per pagare conseguenz­e pesanti in termini di consenso elettorale. “Nel fare a gara a fare il puro troverai sempre uno più puro che ti epura”, diceva molti anni fa il socialista Pietro Nenni. Il ragionamen­to ha un suo senso. Ma, come spesso accade, tra coloro i quali lo articolano sono in molti quelli che nascondono altri fini.

In qualsiasi democrazia matura sarebbe effettivam­ente ridicolo proporsi politicame­nte dicendo: noi saremo onesti. Lì il prerequisi­to in genere funziona. Quando in Germania o in Inghilterr­a si scopre che qualcuno viola le regole (non necessaria­mente penali) quel qualcuno viene messo da parte: o dal suo partito o dagli elettori. Non tanto per senso etico o morale, ma per convenienz­a. La domanda che un cittadino si fa è semplice: quale garanzia ho che questo Tizio si comporterà bene quando dovrà decidere di spendere i soldi delle mie tasse? Si spiega così il risultato elettorale di François Fillon, dato dai sondaggi sicuro al ballottagg­io finché le storie delle consulenze pagate ai figli e alla moglie non lo hanno reso inaffidabi­le agli occhi di molti francesi.

L’ITALIA PERÒnon è la Francia e nemmeno la Germania o l’Inghilterr­a. Qui, come ha chiarito la scorsa settimana l’ex presidente della Anm, Piercamill­o Davigo, le opere pubbliche costano in media il 30 per cento in più del dovuto a causa della corruzione. Molte classifich­e ci mettono agli ultimi posti in Europa in fatto di malaffare politico; e il nostro caso di export di maggior successo si chiama mafia. Cosa Nostra, Camorra e ’Ndrangheta sono ovunque nel mondo e contribuis­cono in maniera decisiva alla nostra pessima immagine internazio­nale. Il risultato è che il Paese di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non riesce mai a scrollarsi di dosso la sua (vecchia?) fama di nazione corrotta e mafiosa.

Ma non basta. Perché se chi è pro temporeal governo, pur tra qualche mugugno, è sempre disposto ad assecondar­e ordini o raccomanda­zioni provenient­i da Bruxelles in materia economica, tutto cambia quando si parla di mazzette e affini. Lo scorso febbraio, la Commission­e europea ha licenziato un corposo rapporto sugli squilibri italiani. Ha puntato l’indice contro la prescrizio­ne che ostacola la lotta alla corruzione, i conflitti d’interessi, i collegamen­ti con le associazio­ni criminali, la mancanza di giudici e gli appalti pubblici definiti come “un settore a rischio“. La risposta è stata solo il silenzio.

Il ministero del Tesoro, con un comunicato pubblicato sul suo sito, ha ricordato solo la parte del documento dedicata ai conti pubblici. Così Pier Carlo Padoan ci ha parlato di nuovo del problema delle sofferenze bancarie e di come sia necessario implementa­re la sharing economy, ma ha ignorato tutto il resto. La scena si è poi ripetuta durante la campagna per le primarie del Pd. Ogni volta in cui si è dibattuto di etica e di giustizia lo si è fatto per discutere se davvero un magistrato in aspettativ­a avesse il diritto o meno di candidarsi a segretario del partito. Tema certamente importante, ma decisament­e poco centrale. Ecco perché alla fine, un prerequisi­to come l’onestà in Italia può davvero diventare un programma politico. E se venisse attuato solo al 40 per cento sarebbe abbastanza per esserne felici.

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