Indro, Curzio, Leo e Guareschi: i film degli apòti
I film di Longanesi, Malaparte, Montanelli e Guareschi
La verità delle cose vere, se così si può dire. Questo è il cinema: “C’è un vero ancora da fare, un vero che vedremo, un vero che verrà; e c’è il falso che vediamo e che morirà”. Parola di Leo Longanesi – l’inventore della modernità del giornalismo – che con Curzio Malaparte, Indro Montanelli e Giovannino Guareschi mette a segno uno dei quattro colpi unici e secchi in forma di film a dispetto della voga corrente.
Quattro titoli, dunque, dei quattro campioni irregolari. Sono i quattro estranei – per stile e istinto di disobbedienza – alla dogmatica istituzionale, progressista e democratica dell’ideologicamente corretto. Sono l’Italia di Giotto, di Masaccio e di Piero della Francesca contro i ladri di biciclette. Sono, infatti – per dirla con Malaparte, rivendicando un diverso retroterra rispetto agli sciuscià – quelli di una terra “povera d’alberi, di acque, nuda di messi, una distesa ondeggiante di crete dove vive un popolo magro, taciturno, pieno di profonda vita morale”. E sono, infatti, Colpi Roventi.
NE HA FATTO un sapiente studio Giancarlo Mancini – Colpi Roventi, edizioni Bompiani – ed è un inedito capitolo sulla cultura della contro-scuola. Tra loro ci sono rapporti, frequentazioni, “la condivisione” – scrive Mancini – “di alcune battaglie contro: contro il comunismo, contro la cultura di sinistra, contro il mito della Resistenza, contro la modernità”.
Il cinema è l’occhio della realtà. Il set, per ognuno dei quattro – ciascuno nel proprio modo, secondo la propria sensibilità – aiuta ad aggirare il pensiero dominante. È lo specchio dove le virtù si capovolgono in vizi.
Dieci minuti di vita è la pellicola di Longanesi. La realizza giusto tra il 25 luglio e l’ 8 settembre 1943 ed è un’istantanea sul crollo dell’Italia prima della catastrofe militare.
Il Cristo Proibito è il film di Malaparte. Ed è la resa dei conti dopo il 25 aprile dove la chiamata all’assunzione di responsabilità corale non è solo dei vinti ma anche dei vincitori.
Quindi I sogni muoiono all’alba. È la prova cinematografica di Montanelli – vuole assolutamente essere lui il regista – dove il futuro fondatore de Il Giornale riversa la sua più impegnativa prova di cronista: la notte tra il 3 e il 4 novembre del 1956, all’hotel Duna di Budapest, mentre muore soffocata dall’esercito sovietico la rivolta d’Ungheria.
L’ultimo titolo – speculare al cimento in parallelo fatto da Pier Paolo Pasolini – è La Rabbia. La firma, che pure è assai popolare nelle sale cinematografiche, come papà di Don Camillo e non per la regia, è quella di Giovannino Guareschi.
Sono i film di quattro personalità che, impegnate a far altro – la letteratura, il giornalismo, la satira – sperimentano il cinema. Fosse solo per quella volta sola i quattro si misurano con la macchina da presa ed è una presa visione della realtà che li porta oltre le apparenze.
PRATICO DI ARCHIVI appartati e di giganti costretti all’ombra, Mancini va a scovare il “quinto uomo” tra i quattro, ed è Giuseppe Prezzolini (Perugia, 188 2- Lug ano 1982) la figura centrale – ne ll’Italia del Novecento – a dare un canone alla Settima Musa, sia in termini di critica quanto di comprensione del mezzo quando dalle pagine de Il Leonardo impegna i suoi interlocutori al cinema degli a- poti, ovvero, coloro che non se la fanno dare a bere. Prezzolini, e ne dà ampia documentazione Mancini, ravviva il dibattito intorno allo schermo reclamando contro “il gesto glutinoso d’un gusto di maniera”, uno scarto. Rispetto alla letteratura, e così rispetto al teatro, e rispetto al giornalismo. Per non dire – tanto è urgente lo scarto – del riassunto del moralismo, com’è tipico di ogni messa in opera italiana: il pe- riodare tondo, la facile lacrimosità, l’ottimismo imbecille, il robivecchio romantico e il tubercolismo del melodramma. Non è forse il canone obbligatorio dell’ideologia italiota?
I ROVENTI colpi della verità, infine. Il più cinematografaro dei quattro è Longanesi. All’inchiostro alterna le lenti Zeiss della macchina Leica, si firma con la siglaKodake tutto questo sta retrai suoi“aggeggi” è un presagio del cinema. Le sue sceneggiature sono schizzi, prove d’ artista. Negli anni precedenti allo scoppio del conflitto Longanesi ha fatto esperienza di aiuto regista di Luigi Comencini per Batticuore, e di Mario Soldati con Fra’ Diavolo e Quartieri Alti. Il cinema, per il fondatore di Omnibus, è “il più poderoso mezzo di cultura popolare” attraverso cui realizzare la commedia sociale. Longanesi manca all’appuntamento con gli Stati Uniti. E pure è lì – e lo racconta a Camillo Pelizzi in una lettera del 18 gennaio 1933 – che vede se stesso: “Io andrò a far pratica in America per conoscere la tecnica dei film”.
PITTORE, letterato ed editore, fu giornalista e non ebbe modo di diventare compiutamente regista. Senza aspettare Billy Wilder, Longanesi è già pronto per Prima Pagina ma non arriverà mai a Hollywood e in Colpi Roventi, Mancini, offre tutti gli argomenti per capire come nella biografia di un intellettuale forte come pochi di fantasia e curiosità ci sia un atto così “mancato”.
Tra tutti i motivi, uno: la suprema ostilità al conformismo obbligatorio. Se ne sta in sala a vedere un film di Cesare Zavattini e Vittorio De Sica – “troppo preso a rincorrere un tema sociale con l’ottusità di un polemista di partito” – e capisce che quel film è buono per “un pubblico che gode delle delizie di un appartamento con gabinetto maiolicato”.
Longanesi, insomma, non se la beve. E come lui gli altri tre, anzi, gli altri quattro con Prezzolini: vedono i film e non se li bevono. C’è sempre tutto un vero da fare.
Disobbedienti Sono l’Italia di Giotto, di Masaccio e di Piero della Francesca contro i ‘ladri di biciclette’