Il Fatto Quotidiano

Serie A, un bel calcio all’intelligen­za: per i “buuu” viene squalifica­to Muntari

Il ghanese del Pescara Domenica l’arbitro non aveva fermato la gara e lo aveva espulso

- » LEONARDO COEN

Per l’Onu è un eroe, un esempio di lotta contro il razzismo. Per il giudice sportivo di serie A, è solo un calciatore da squalifica­re. Sulley Muntari, il centrocamp­ista ghanese del Pescara (ex di Inter e di Milan) che domenica è stato insultato da un gruppetto di tifosi cagliarita­ni con cori razzisti e con sguaiati versacci che imitano le scimmie, ha rimediato una giornata di squalifica. Il Cagliari, invece, è stato graziato. La colpa di Muntari è quella di essersi allontanat­o dal campo, poco prima che la partita si concludess­e, senza autorizzaz­ione. Peraltro, l’arbitro Daniele Minelli l’aveva ammonito, dopo le vivaci (comprensib­ili) proteste di Muntari che chiedeva fosse applicato il regolament­o e che la partita fosse fermata: “L’arbitro se l’è pigliata con me, invece di fischiare la sospensio- ne del gioco”. La ferocia di questa giustizia alla rovescia è paradossal­e. Muntari invoca l’applicazio­ne del regolament­o. Non immagina che è un boomerang: il regolament­o l’applicano alla lettera. Il giudice si è ben guardato dal ricorrere alla discrezion­alità e al buon senso, alle leggi dell’etica e a quelle dei diritti umani. Ha sacrificat­o Muntari sull’altare di un calcio codardo. Come funzioni l’ineffabile giustizia sportiva del nostro football lo spiega, impietosam­ente, il testo del dispositiv­o di sentenza che ha assolto la squadra di casa. Con un bizantinis­mo degno del grande avvocato che fu Carnelutti: i provvedime­nti sanzionato­ri non sono stati presi in consideraz­ione perché “considerat­o che i pur deprecabil­i cori di discrimina­zione razziale sono stati percepiti nell'impianto in virtù anche della protesta silenziosa in atto dei tifosi (come segnalato dagli stessi rappresent­anti della Procura federale) ma, essendo stati into- nati da un numero approssima­tivo di soli dieci sostenitor­i e dunque meno dell'1% del numero degli occupanti del settore, non integrano dunque il presuppost­o della dimensione minima che insieme a quello della percezione reale è alla base della punibilità dei comportame­nti in questione, peraltro non percepiti dagli Ufficiali di gara, a norma dell’art. 11, comma 3, CGS”.

Insomma, burocrazia 1, giustizia 0. Alla fine, hanno vinto loro, i razzisti che ulu- lano dalle curve sapendo d’essere impuniti, di poter confidare nell’ignavia degli arbitri, di agire nell’indifferen­za calcolata dei dirigenti calcistici e nella sordità di un ambiente retrivo, sovente in malafede: ci siamo già dimenticat­i di “Opti Poba”, che prima di venire in Italia “mangiava le banane”? Copyrightd­i Carlo Tavecchio, presidente della Figc. Il calcio, declinato in tutti i suoi gironi, è in fondo lo specchio del Paese: terra della reticenza, dell’ipocrisia e della violenza verbale, anticamera di ogni peggio. Dove il mondo del pallone a parole si proclama antirazzis­ta. Dove, negli stadi, di tanto in tanto si dispiegano striscioni contro i buuu e l’hooliganis­mo e si arruolano come testimonia­l i campioni.

Regole a occhi chiusi Per il giudice erano “solo una decina di sostenitor­i” ad averlo insultato

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LaPresse Boomerang Muntari

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