Serie A, un bel calcio all’intelligenza: per i “buuu” viene squalificato Muntari
Il ghanese del Pescara Domenica l’arbitro non aveva fermato la gara e lo aveva espulso
Per l’Onu è un eroe, un esempio di lotta contro il razzismo. Per il giudice sportivo di serie A, è solo un calciatore da squalificare. Sulley Muntari, il centrocampista ghanese del Pescara (ex di Inter e di Milan) che domenica è stato insultato da un gruppetto di tifosi cagliaritani con cori razzisti e con sguaiati versacci che imitano le scimmie, ha rimediato una giornata di squalifica. Il Cagliari, invece, è stato graziato. La colpa di Muntari è quella di essersi allontanato dal campo, poco prima che la partita si concludesse, senza autorizzazione. Peraltro, l’arbitro Daniele Minelli l’aveva ammonito, dopo le vivaci (comprensibili) proteste di Muntari che chiedeva fosse applicato il regolamento e che la partita fosse fermata: “L’arbitro se l’è pigliata con me, invece di fischiare la sospensio- ne del gioco”. La ferocia di questa giustizia alla rovescia è paradossale. Muntari invoca l’applicazione del regolamento. Non immagina che è un boomerang: il regolamento l’applicano alla lettera. Il giudice si è ben guardato dal ricorrere alla discrezionalità e al buon senso, alle leggi dell’etica e a quelle dei diritti umani. Ha sacrificato Muntari sull’altare di un calcio codardo. Come funzioni l’ineffabile giustizia sportiva del nostro football lo spiega, impietosamente, il testo del dispositivo di sentenza che ha assolto la squadra di casa. Con un bizantinismo degno del grande avvocato che fu Carnelutti: i provvedimenti sanzionatori non sono stati presi in considerazione perché “considerato che i pur deprecabili cori di discriminazione razziale sono stati percepiti nell'impianto in virtù anche della protesta silenziosa in atto dei tifosi (come segnalato dagli stessi rappresentanti della Procura federale) ma, essendo stati into- nati da un numero approssimativo di soli dieci sostenitori e dunque meno dell'1% del numero degli occupanti del settore, non integrano dunque il presupposto della dimensione minima che insieme a quello della percezione reale è alla base della punibilità dei comportamenti in questione, peraltro non percepiti dagli Ufficiali di gara, a norma dell’art. 11, comma 3, CGS”.
Insomma, burocrazia 1, giustizia 0. Alla fine, hanno vinto loro, i razzisti che ulu- lano dalle curve sapendo d’essere impuniti, di poter confidare nell’ignavia degli arbitri, di agire nell’indifferenza calcolata dei dirigenti calcistici e nella sordità di un ambiente retrivo, sovente in malafede: ci siamo già dimenticati di “Opti Poba”, che prima di venire in Italia “mangiava le banane”? Copyrightdi Carlo Tavecchio, presidente della Figc. Il calcio, declinato in tutti i suoi gironi, è in fondo lo specchio del Paese: terra della reticenza, dell’ipocrisia e della violenza verbale, anticamera di ogni peggio. Dove il mondo del pallone a parole si proclama antirazzista. Dove, negli stadi, di tanto in tanto si dispiegano striscioni contro i buuu e l’hooliganismo e si arruolano come testimonial i campioni.
Regole a occhi chiusi Per il giudice erano “solo una decina di sostenitori” ad averlo insultato