Il boccone di traverso alla scienza
Il peso della statistica e le eccezioni
Sto per parlarvi di una attività umana che compiamo da secoli, e che da secoli, inconsapevolmente, mette a repentaglio la nostra salute. Mangiare. Molti di noi più volte al giorno rischiano inconsapevolmente la vita inserendosi in bocca oggetti che potrebbero soffocarli. Se questo fosse un servizio televisivo, ora partirebbe l’intervista a Hilde, che racconta come il suo Helmut durante il pranzo di matrimonio di sua figlia Gerda sia improvvisamente diventato blu e sia crollato a terra. Un pezzo di piccione arrosto farcito di castagne della Schwarzwald gli si era incastrato nella trachea, soffocandolo. Seguirebbero altre storie strappalacrime di persone che hanno perso la vita o l’hanno rischiata.
Sto per parlarvi di una attività umana che compiamo da secoli, e che da secoli, inconsapevolmente, mette a repentaglio la nostra salute. Mangiare. Molti di noi più volte al giorno rischiano inconsapevolmente la vita inserendosi in bocca oggetti che potrebbero soffocarli. Se questo fosse un servizio televisivo, ora partirebbe l’intervista a Hilde, che racconta come il suo Helmut durante il pranzo di matrimonio di sua figlia Gerda sia improvvisamente diventato blu e sia crollato a terra. Un pezzo di piccione arrosto farcito di castagne della Schwarzwald gli si era incastrato nella trachea, soffocandolo. Seguirebbero altre storie strappalacrime di persone che hanno perso la vita o l’hanno rischiata. Un esperto spiegherebbe la fisica dell’evento: un oggetto solido che si incastra nelle vie aeree, impedendo la respirazione. E se questo fosse un programma televisivo anche il più stolido degli spettatori si metterebbe a ridere, convinto che si tratti di uno scherzo. Perché, durante il nostro ipotetico servizio sull’atto di cibarsi come pericolo per la nostra salute, abbiamo l’immediata certezza che sia una assurdità? Perché sappiamo cosa avverrebbe se non mangiassimo. Siamo in grado di fare un rapporto tra rischio atteso e beneficio atteso.
Qualsiasi atto medico – vaccini, operazioni chirurgiche, anche mettersi le lenti a contatto – comporta rischi. Su qualsiasi attività umana, si potrebbe costruire una storia selezionando casi di persone che compiendo quella attività hanno perso la vita o avuto dei danni. Basta selezionare quelle poche storie, ignorando i miliardi di persone che ogni giorno mangiano o le centinaia di milioni che corrono, per instillare un dubbio. Avendo uno spazio limitato a mia disposizione, già la scelta di quello che racconto è una informazione. E parlare di mangiare come atto pericoloso significa concentrarsi su una fluttuazione, un mero accidente statistico dato dalla grandezza del campione. Queste fluttuazioni, casuali o meno, sono possibili anche se ci appaiono clamorosamente improbabili. Nel 2016 tre persone sono morte per arresto cardiaco durante la maratona di Boston; ogni anno, nel corso di manifestazioni sportive di ogni tipo, come di allenamenti blandi, perdono la vita delle persone. Quanti di voi si sentirebbero di dire che fare sport è dannoso per la salute? Trarre conclusioni sulla base di casi singoli in ambito medico non ha senso. Attraverso questa generalizzazione, il risultato che si ottiene è di diminuire la capacità delle persone di interpretare la realtà.
Un secondo aspetto più subdolo riguarda la medicalizzazione, il trattare ogni aspetto della vita umana come patologia da curare. Una ricercatrice italo-francese, Patrizia Paterlini-Brechot, ha portato alla ribalta della stampa un metodo da lei messo a punto per identificare le cellule tumorali da tumori solidi in circolo prima che queste attecchiscano e sviluppino metastasi. Si cercano lanzichenecchi che il tumore solido (ai polmoni, o alla mammella) rilascia. Il metodo è promettente, per seguire l’evoluzione delle cure in pazienti con diagnosi di tumore conclamato, ma ci sono due problemi. Il primo: non si è ancora in grado di individuare l’organo da cui le cellule tumorali provengono. Un risultato positivo a questo test su un sano potrebbe portare una persona a farsi analisi diagnostiche in tutto il corpo, magari sottoponendosi a dosi massicce di radiazioni ionizzanti, che non fanno esattamente bene alla salute. E magari il cancro non c’è nemmeno – o non siamo in grado di trovarlo. Esatto, avete letto bene. Il secondo problema è che si rischia di confondere un fuoco artificiale per un attentato. Una cellula tumorale in giro per il flusso sanguigno non significa che svilupperemo il cancro. Il nostro sistema immunitario è in grado, in alcuni casi, di intercettare queste cellule abnormi e distruggerle; altre volte le cellule tumorali muoiono da sole, perché fragili e metabolicamente inefficienti. La probabilità che io abbia cellule tumorali in circolo se ho sviluppato il cancro è diversa dalla probabilità che io sviluppi il cancro se ho in circolo cellule tumorali. Una cellula malata non significa avere un tumore, nel caso del paziente sano, né la certezza di sviluppare metastasi, nel caso di paziente con il cancro. La stampa ha dato al metodo un risalto quanto meno prematuro. Ma non è meglio per i malati avere a disposizione un metodo prematuro ma migliore dei precedenti? Per i malati sì. Ma per i sani, che sono la grande maggioranza, no. Il concetto di ‘salute pubblica’ significa ‘salute di tutti’, e la possibilità (non la certezza) di migliorare l’aspettativa di vita della minoranza di malati deve essere confrontata con la certezza (questo sì, la certezza) che alcune persone potrebbero sviluppare il cancro in seguito alle inutili analisi suggerite da una analisi, e veder peggiorare notevolmente la qualità della propria vita. Dare risalto a un metodo che la comunità scientifica non ha ancora pienamente avallato può essere prematuro. Proporlo come
screening di massa per l’intera popolazione, e magari chiedere anche che sia rimborsabile, è irresponsabile, nel migliore dei casi.
C’è un solo modo per valutare l’efficacia di un trattamento medico. Uno: prendere un gruppo mooolto numeroso di esseri umani, sicuramente superiore al numero di persone che conoscete, più sono meglio è. Due: dividerlo in due gruppi. Tre: a uno dei due gruppi somministrare il trattamento, all’altro un placebo – oppure il farmaco che viene dato di routine, per vedere se ci sono miglioramenti. Indi, confrontare quello che succede ai due gruppi: confrontarlo in generale, non solo per quanto riguarda la malattia che vogliamo curare, ma anche gli effetti collaterali. Confrontare rischi e benefici. Pretendere che i rischi siano zero è insensato; ma anche chiudersi in casa per paura dei vasi di gerani in testa lo è. Per rendere significativo questo confronto, è necessario che i numeri coinvolti siano grandi. Quanto grandi, dipende da cosa stiamo guardando. Per questo, conoscere la statistica è necessario.
Oggi, nella società densa e liquida del 2017, sommersa da dati e informazioni, ignorare i principi della statistica non è da incompetenti, ma da irresponsabili. Senza questa conoscenza non possiamo ragionare correttamente, e quindi non siamo liberi: liberi, per esempio, di curarci o non curarci in modo assennato. Siamo cittadini monchi, alla mercè di volontà esterne e case farmaceutiche, molto più di quanto immaginiamo. La statistica è necessaria per pensare in termini di società: di noi, invece che di me. Andare veloce in auto può essere vantaggioso per me, ma sicuramente svantaggioso – quando non pericoloso – per la società. Avere paura che un dato atto – correre, o vaccinarsi – possa avere esiti negativi su di noi è umano. Pretendere che, sulla base della nostra paura personale, gli altri debbano subire le conseguenze della mia paura è egoista, stupido, antidemocratico e crudele.