PARLATO CHE INSEGNAVA RIDENDO
Militante e maestroLezioni di giornalismo e ironia: “Di brutte figure non è mai morto nessuno”
Nel tardo pomeriggio del 16 aprile 2000 Valentino Parlato rassicurò con tono allegro e saggio un giornalista che poteva essere suo figlio ed era andato a intervistarlo, regalandogli una grande lezione di giornalismo e di vita: “Non ti devi preoccupare. Di figure di merda non è mai morto nessuno”. C’era in quella frase la grandezza di un maestro: senso dell’umorismo, autoironia, distacco, cinismo (fase suprema dell’onestà intellettuale) erano il vestito elegante della sua passione politica e professionale. E lì il vestito buono ci voleva, nella domenica elettorale in cui il presidente del Consiglio Massimo D’Alema si giocava tutto (e tutto stava per perdere) alle regionali.
Il maestro si era reso complice di un’azione che al giovane collega sembrava ( sbagliando) di pura impostura giornalistica ma che il direttore pretendeva: i seggi chiudevano alle 22 e per i tempi tipografici l’intervista al direttore del Manifesto andava scritta prima dei risultati.
“Si fa così”, istruiva Valentino, “io ti spiego quello che penso di D'Alema e della sua idea dell’Italia e tu scrivi l’intervista. Quando vedi i primi exit poll aggiusta l’attacco: se D’Alema vince, cosa che non credo, mi fai dire che il voto è l'autoritratto del Paese che se lo fa piacere, se perde mi fai dire che la sua strategia non porta lontano. Tanto la sostanza politica non cambia per un po’ di voti in più o in meno”.
Così teneva legati l’attenzione al prodotto giornalistico, frutto anche dei trucchi del mestiere, e lo sguardo lungo sulle dinamiche politiche e sul destino della sinistra e del Paese. Sorrideva, sicuro del suo mestiere: “Secondo me funziona”. L’intervistatore era scettico. “E se non funziona pazienza”. Rise e pronunciò la massima immortale. Riletta oggi, quell’intervista rilasciata quasi per gioco – tra una sigaretta, una risata e un colpo di tosse – appare lucida e profetica sui canovacci, anche se gli attori sono cambiati. “Faccio parte di quella categoria di persone secondo le quali non c’è un buon governo senza un buon ideale. E invece l’elettorato italiano tende ormai ad accettare l’idea di buon governo anche senza un ideale forte sottostante”. “D’Alema e Berlusconi si imitano a vicenda, fanno il medesimo gioco di accattivarsi gli umori più ovvii del Paese”.
“Capisco il punto di vista del presidente del Consiglio: siamo nel 2000, c’è la new economy, siamo in Europa e quindi la battaglia è tra chi vuole correre e chi vuole stare fermo. Se D’Alema vuole diventare leader di un moderno partito borghese e pensa che la battaglia da fare sia contro la Cgil di quel rompiscatole passatista di Sergio Cofferati, si illude che i conflitti siano solo di retroguardia, contro gli operai conservatori. Invece il comunismo vede i conflitti dell’avvenire. Come Candide, D’Alema pensa che ci stiamo avviando a vivere nel migliore dei mondi possibili”. “Rifondazione comunista è tornata a schierarsi con lui per non rischiare la scomparsa con la corsa solitaria. Qui sta l'errore: l’imperativo del primum vivere porta alla morte certa. La verità è che non si può vivere senza affron- tare anche il rischio di morire, su questo Marco Pannella ha dato significative lezioni”.
D'Alema perse le elezioni, si dimise da palazzo Chigi e dovette abbandonare buona parte dei suoi sogni di gloria (non tutti). Quell’intervista che Parlato inventò senza tirarsela, solo per dare una mano a un collega in difficoltà (la sua generosità era rara nella politica e nel giornalismo), è ancora viva. E fu un successo.
Il lunedì mattina, con i giornali in edicola pieni di notizie sulla disfatta elettorale del centrosinistra, il maestro telefonò all’intervistatore per prendere in giro le sue preoccupazioni. “Non sai quante telefonate di congratulazioni. Tutti che si complimentano per l’acume della mia analisi del voto. Vedi come funzionano le cose?”. Il maestro rideva e ridendo insegnava.
Twitter@giorgiomeletti