Maduro, come annegare nella dittatura del petrolio
Crisi galoppante Il presidente può decidere da solo con le aziende straniere gli accordi sul greggio, ma l’oro nero non è più una garanzia
Il potere sul Parlamento no, ma quello sul petrolio sì. Ed è perfino più importante. Quando all’inizio di aprile l’o pp o s iz i on e venezuelana ha scongiurato il commissariamento dell’assemblea legislativa da parte del governo, la Corte Suprema di Caracas ha comunque lasciato al presidente Nicolas Maduro una prerogativa specifica: decidere in autonomia gli accordi petroliferi.
Con i russi di Rosneft, per esempio, con cui la compagnia petrolifera di Stato Pvsda ha recentemente concluso un accordo da 500 milioni di dollari. Morale: segui l’oro nero e capirai come sta – e dove va – il Venezuela.
“Tradizionalmente, il mercato di sbocco per il greggio venezuelano, pensante e ricco di metalli, sono gli Stati Uniti, il cui sistema di raffinazione è dimensionato proprio per lavorare queste tipologie di olio” osserva Federico Gasparini, esperto di petrolio di Quotidiano Energia.
IL PROBLEMA è che a marzo per il terzo mese consecutivo sono diminuiti drasticamente i flussi dal Venezuela agli Usa. Più in generale, a marzo 2017, secondo l’ultimo bollettino dell’Opec, il Venezuela ha prodotto 1,97 milioni barili al giorno, molto sotto la media degli anni precedenti (nel 2016 2,16 mln di barili al giorno e nel 2015 di 2,37). Gli attuali ritmi di produzione sono ai minimi da oltre 20 anni. Oltretutto, la crisi corrente ha avuto impatto anche sulle raffinerie venezuelane, tanto che il Paese è ormai addirittura costretto a importare greggio.
Con il risultato delle file alle pompe di benzina, paradossali per uno Stato che è undicesimo al mondo tra i produttori Opec. Nella partita dell’oro nero venezuelano c’è anche l’Italia. Il sito web dell’Eni informa della presenza della compagnia petrolifera italiana in diverse aree del Paese, tra cui il bacino dell’Orinoco.
Qui l’Eni, presente su una superficie di oltre 1000 km quadrati, è entrata con un importante accordo dal 2008 ( gestione Scaroni) al 40% con la società petrolifera di stato Pdvsa. Obiettivo finale, l’estrazione di 240 mila barili al giorno. “La dipendenza del Venezuela dal petrolio risale almeno agli anni 30 ed è stata particolarmente sentita dopo i governi del dopoguerra. Ma oggi, per colpa principalmente di Chavez, è diventata perfino maggiore”, dichiara il professor Loris Zanatta, storico dell’America Latina a ll ’ università di Bologna. “Prima della ‘scoperta’ del petrolio – prosegue Zanatta – il Venezuela era uno degli Stati più poveri e arretrati del Sudamerica”.
LO STESSO CHAVEZ è andato al potere, in buona parte, per effetto della crisi petrolifera tra anni 80 e 90, quando il greggio era a 8 dollari al barile. Salito presto a 25, impennato fino a oltre i 100, il greggio ha rappresentato il perno di tutto il sistema. “Il governo chavista non ha fatto nulla per differenziare la sua economia. La mucca, cioè il greggio, ha dato tanto latte, e la gestione pubblica dissennata ha disincentivato gli investimenti privati e osteggiato quelli esteri. Così quando il prezzo del barile si è di nuovo dimezzato, come era prevedibile, il Venezuela si è trovato sull’orlo del baratro”, conclude Zanatta. Dove siamo oggi, appunto. Dal leader carismatico al suo sbiadito erede Nicolas Maduro, la storia non cambia troppo, anzi.
“L’attuale presidente rischia ormai di trasformare il Paese in una dittatura basata sul petrolio”, sostiene Niccolò Locatelli, analista di Limes. Infatti, come una nuova Cuba del XXI secolo, il Venezuela si rende sempre di più dipendente dagli accordi petroliferi con attori extra-regionali e perfino lontani dall’Occidente.
NICCOLÒ LOCATELLI (LIMES)
I soldi di Pechino e l’‘ombrello’ di Mosca alla base della tenuta del governo, con la stretta antidemocratica sono imprescindibili
“I soldi di Pechino e l’ombrello diplomatico di Mosca sono già ora alla base della tenuta di Maduro. Di sicuro, diventerebbero imprescindibili qualora l’involuzione antidemocratica diventasse irrecuperabile”,