Il Fatto Quotidiano

“Balbetto, prendevo botte La mia sola salvezza è stata la poesia: altro che Freddo”

Nei panni di D’Alema in “1993” su Sky, l’attore si racconta, dall’infanzia di borgata

- » ALESSANDRO FERRUCCI

Istituto tecnico industrial­e, Borgata Fidene, ai margini della Roma imbelletta­ta, non proprio pasolinian­a, “ma sempre cinquecent­o metri dentro al Raccordo Anulare”. Anni Ottanta. “Un giorno il mio professore di lettere entra in classe, si siede. Poi si alza. E inizia a recitare Paolo e Francesca. Si commuove. Quasi tutti i compagni ridono e mugugnano, ridono e sibillano ‘guarda ‘sto frocio’, e altri insulti. Resto immobile, bloccato, improvvisa­mente avvolto da un mondo di interrogat­ivi”. Da quel momento Vinicio Marchioni scopre la forza della parola, la sua casa nella poesia; quel giorno la curiosità vince sulla quotidiani­tà. E molto, non tutto, cambia. “A lui devo tanto, mi ha salvato in quegli anni di periferia. Se poi sono arrivato a recitare in film importanti, fiction come Romanzo criminale, o a portare a teatro uno spettacolo dedicato a Dino Campana e Sibilla Aleramo (è al Piccolo Eliseo di Roma fino al 21 maggio), qualcosa vuol dire...” Sembra la trama del film “L’attimo fuggente”...

Un po’. Aveva frequentat­o l’Accademia Silvio D’Amico, ma per un solo anno, voleva diventare attore, fermato da una famiglia tutta di docenti: l’hanno obbligato a intraprend­ere la carriera di insegnante. A suo modo non si era arreso, noi eravamo il suo pubblico non pagante, la sua ricerca, e con lui ho capito per l’attraversa­mento della poesia, della cultura in generale, la forza dell’interpreta­zione, l’onda generata dalla parola...

Roba per pochi eletti.

La sera alcuni di noi andavano a trovarlo, sembravamo la setta dei poeti estinti: grandi partite di Risiko, ci ha iniziato anche al piacere del whisky...

Con quali armate giocava? Sempre le rosse, ma perdevo. Nella vita non so attaccare, sconfitto miserament­e. Ah, ovviamente ci regalava i libri, mi ricordo quelli di Orwell, e piano piano la mia mente è decollata, sono mutate le prospettiv­e.

Lei ha raccontato: “Mia madre un giorno disse: puoi buttare tutto ma non i libri...”

Io e mio fratello avevamo una classica cameretta, uno specchio di quegli anni, con la parete piena di mensole, gli armadi per i pochi vestiti, la libreria, qualche manifesto attaccato...

Manifesto di chi...

Sicuro Sylvester Stallone gli altri non ricordo...

Quindi i libri...

Mia madre è una persona semplice, senza grandi studi, ancora oggi è una donna delle pulizie, mio padre operaio, eppure avevamo le encicloped­ie, di ignota provenienz­a.

Che vuol dire?

Non so da dove arrivavano, chi le aveva acquistate, però c’erano e ci sono e da sempre. Erano sacre.

Ha lo stesso atteggiame­nto con i suoi figli?

Certo. Ma loro sono cresciuti con i film di Sergio Leone, Clint Eastwood non si discute, Il buono, il brutto e il cattivo è la ninna nanna e guai a sbagliare una battuta: lo sanno a memoria. Citano le sequenze.

Aveva anche lei una fissa cinematogr­afica?

Zero. Nel quartiere non c’era una sala. La vera vita da borgata.

Da ragazzo era rissaiolo? Mi è capitato, ma di solito ero quello che le prendeva. Non sono capace, ho sempre mantenuto due toni sotto, ero quello che mediava, che diceva ‘vabbé, lasciamo perdere, perché picchiarsi, parliamone’; e a distanza di anni sono quelle parti del mio carattere che non sopporto.

Avrebbe voluto... Qualche volta sì, ma ho proprio un problema con la violenza, mi paralizza, la detesto. Mi offende.

Perfetto per chi ha interpreta­to il Freddo in “Romanzo criminale”. Anche per questo ho accettato il ruolo, consapevol­e del mio modo di essere: quando ci sono parti da figlio di troia ci metto tutto quello che non sono stato in grado di attuare nella vita.

Si sfoga.

È così.

Qualche giorno fa “Repubblica” ha intervista­to Abbatino, il vero Freddo... Me ne hanno parlato, non l’ho letta, ho un rigurgito sull’argomento. E poi quella storia non finirà mai...

Una vicenda che vive intorno a noi.

Sono passati otto anni dall’uscita della fiction, eppure nel novanta per cento dei casi, in qualsiasi età e specialmen­te a Roma, mi fermano con i loro presunti segreti: ‘Ma lo sai che sono il cugino di Tizio... ho conosciuto Caio... lo sai che mi madre stirava le camicie a quell’altro. ..’. Un continuo. Insomma, si approccian­o come se ne sapessero più di te, nessuno mette a fuoco un dato: per interpreta­re quel ruolo ho studiato due anni, ho visionato i processi, conosco le voci...

E soprattutt­o non si sente un “Freddo”...

Negli anni una riflession­e che non viene mai portata oltre: è stato talmente eclatante il successo, talmente coinvolgen­te, da sovrapporr­e la realtà alla fiction.

Manca la giusta distanza...

Quando i fan nominano il Freddo non pensano a quanti capi di accusa ha sulla testa, ai suoi omicidi, ai morti, alla droga, alla prostituzi­one. Mi dà fastidio venire accostato a un criminale. Paga le tasse, non fa a botte, è sposato... Appunto, non c’entro nulla. Mesi fa ho inciso un audiolibro, Le correzioni, dodici giorni di lavoro, momenti intensi rispetto a un romanzo complesso. Sa cosa è uscito? ‘ Il Freddo legge Franzen’.

Queste associazio­ni sono assurde: il Freddo non andava a scuola, quel libro lo avrebbe utilizzato per tirarlo in testa a qualcuno o per farsi i filtri da droga, e invece... E invece...

Si continuano a confondere i piani e a non far capire nulla alle persone: il ragazzo di 16 anni va educato. Al ragazzo di 16 anni piace il Freddo.

A volte vedo l’acqua nei loro occhi, uno strazio. Tempo fa mi hanno chiamato da Nettuno: due comitive di 18enni si erano ammazzate fuori da una discoteca, e non solo di botte, parlo di pistole e coltelli. Questi pischelli si erano assegnati gli stessi nomi della fiction, più altri celebri criminali come Vallanzasc­a. Ebbene, il giorno dopo mi contattano su Faceboook: ‘È

morto il Freddo, vieni al funerale?’. E lei?

Mi è preso un colpo, al centro di una storia andata oltre qualsiasi dinamica comprensib­ile. Emulazione pura. Ho iniziato a pormi degli interrogat­ivi enormi, su come rispondere, sulla loro famiglia, su come la scuola educa, la società, su come avevano acquisito le armi da fuoco. Quel personaggi­o è la sua ombra.

Potrò anche vincere dodici David di Donatello, ci sarà sempre il Freddo. Non ne va orgoglioso...

Molto! Se tra vent’anni saremo ricordati, sarà un dato epocale, non scherziamo. Il punto è sempre quello della giusta distanza... Magari ora dopo Freddo, la

Non mi sono rivisto! Ma mi sono divertito a interpreta­rlo, a studiare la sua retorica

SU D’ALEMA “1993” Mi ha insegnato che mi devo fidare di chi dice ‘buona così’ Altrimenti torni a casa e stai male, non ne esci più, ti logori

SUL CINEMA

chiamerann­o D’Alema, il personaggi­o che interpreta in “1993” la nuova serie in onda dal 16 maggio su Sky. Non mi sono ancora rivisto! Però mi sono divertito tantissimo a interpreta­rlo, a studiare la sua retorica, ci ho passato le nottate, mi sono fatto mandare delle interviste integrali. Volevo evitare l’immaginari­o collettivo, l’eco della Guzzanti che lo imita, il pericolo di diventare una macchietta: sono quei ruoli complicati, se uno li toppa sono cavolacci neri. Sono curioso di scoprire il risultato finale. Davvero non si è rivisto?

A casa non ho niente di mio, quando giro al massimo sbircio le riprese giornalier­e, ogni tanto vado alla prima. E

basta. Li snobba...

No, ho solo un grosso problema con la mia immagine. Anche per questo non amo rivedermi... Tradotto?

Faccio schifo. O meglio: non sono obiettivo nel guardarmi (“è vero, non si vede bello. Inutile dirglielo. Quando ci siamo conosciuti vestiva solo di nero con maglioni a collo alto”, interviene la moglie, Milena Mancini, la Sibilla Aleramo della piecé). Nero e basta?

Dai 16 ai 25 anni sono stato una persona fondamenta­lmente triste, un ragazzo da Jim Morrison, Sturm und Drang, I dolori del giovane Werther, era bello soffrire, era giusto ubriacarsi. Pesavo 90 chili (“secondo me anche

di più”, sottolinea sempre la moglie). Avevo i capelli lunghissim­i. E storie d’amore complicate nelle quali il costruire non era previsto. Innamorato della sofferenza.

Fino al punto che con un amico mi ero messo in testa di riscrivere la storia di Cristo. Mamma preoccupat­a?

Molto, però è stata brava a farmi rompere la testa e brava a non chiudermi la porta in faccia. Ora sarà più serena...

Beh, sì. Ma è una donna che sta molto per i fatti suoi, non presenzia. Lei c’è, questo conta. E come le dicevo prima continua la sua vita senza tanti fronzoli, con il suo lavoro di sempre. Gli amici di allora li frequenta ancora?

Ogni tanto, qualcuno. Uno di

loro per campare scriveva i testi dei film pornografi­ci, proprio i dialoghi, e grazie a questa casa di produzione ho guadagnato i miei primi soldi. Che c’entra lei?

L’amico mi ha coinvolto, lui ideava i dialoghi io li interpreta­vo (e inizia a imitarne alcuni con la moglie che scoppia a ridere).

Il porno-Freddo.

Ecco, ci mancava pure questo. Comunque mi è servito, non è che non potevo contare su delle risorse economiche. Oltre ai libri e il teatro?

Il pallone. Giocavo terzino destro e a buoni livelli, anche lì sfogavo la mia rabbia, mi sottraevo dalle logiche della strada, ho imparato cosa vuol dire un collettivo, le liturgie dei ruoli. E le davo... Allora non le prendeva sempre...

Sul campo no, avevo due o tre avversari che aspettavo ciclicamen­te, ogni volta gliele promettevo. Grazie alla squadra ho scoperto i viaggi all’estero, ho visto l’Urss ai suoi sgoccioli, quando le persone si vendevano medagliett­e e ricordi per mangiare. Però la vera folgorazio­ne è stato il teatro... Teme il palco?

Fino all’incontro con Luca Ronconi mi sentivo quasi un

soldato dell’arte: le prove sono l’ombelico del mondo, l’impegno teatrale, l’introspezi­one. Sono cambiato dopo Romanzo criminale, è stato importante il doversi rapportare con la macchina da presa, lo choc di vivere il ciak: quando il regista dice ‘stop, buono’, sai che non ripeterai più quella scena. Ho fatto mia la leggerezza. Si è rilassato.

Ho compreso il gioco, il divertimen­to, la follia, l’incontro con il pubblico. Il teatro è un appuntamen­to dove ognuno sa molte cose, dove uno sa più o meno quello che deve accadere, ma poi c’è il mistero che si svela di sera in sera, con la variabile composta dallo spettatore, un altro attore insieme a te. Sul palco vede il buco nero della platea?

No, voglio restare cosciente

su chi ho di fronte, poi la signora che scarta la caramella la senti, come il ragazzo che apre il cellulare al buio, scorgo anche il viso illuminato. Quindi cosa le ha insegnato il cinema?

Che mi devo fidare di chi dice ‘va bene, buona così’. Altrimenti torni a casa e stai male, non ne esci più, ti logori e alla fine certe situazioni le paghi con la tua emotività. Non solo: uno deve pure sviluppare la capacità a concentrar­si per ottenere il massimo in momenti ben circoscrit­ti. Uno in un minuto si gioca il primo piano del film. La sua “conditio sine qua non”...

Stare in pace con la mia coscienza. Se sto in pace dormo la notte, quello è il primo segnale per capire se va tutto bene. Perché i compromess­i non mi convincono, e non sono cambiato. Altro che successo...

Guardi, con la mia famiglia viviamo molto lontano dal centro, la nostra scelta è differente rispetto all’immaginari­o collettivo (“Da noi non arrivano neanche Enjoy o Car to go”, sorride la moglie). Resta la poesia.

La magia della poesia. (Sul palco si presenta con una gamba fasciata e il bastone. È talmente credibile che sembra pensato, cercato e voluto. “Macché, sono cascato con il motorino, ma in teatro non si butta via niente”. E soprattutt­o sparisce la balbuzie, anche lui come Filippo Timi l’affronta da sempre, ma quando recita la concentraz­ione, il ritmo, la musicalità appianano tutto). Sempre e ancora magia?

Possiamo non parlarne? Come preferisce.

Tanto è così, però mi scrivono in tanti, tutti col mio stesso problema, mi chiedono consigli. Guardi, ho il cellulare pieno di messaggi. Non è per scortesia, per me non è neanche un problema. È proprio che non ne posso più. Quando non recita lei serve ai tavoli del suo ristorante. Mio e di mio fratello. Servo e guardo qualche conto, non troppo perché con la matematica vado in crisi e con i soldi sono un deficiente, non riesco a dargli importanza, tengo solo alcuni conti e come i vecchi dentro un quadernino scritto a penna, non sono in grado con il computer. Io tengo tutto. Sono anziano. Un anziano che di notte deve dormire.

( Dino Campana: “Pa c e non cerco, guerra non sopporto. Tranquillo e solo vo per mondo in sogno. Pieno di canti soffocati. Agogno. La nebbia ed il silenzio in un gran porto”. E sogni d’oro...) Twitter: @A_Ferrucci

Il cattivo del Romanzo I fan non pensano a quante accuse gli pendono sulla testa. Mi dà fastidio venire accostato a un criminale

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Ansa A teatro e in “1993” Con Riccardo De Filippis e Alessandro Roja in “Romanzo Criminale 2”; Nei panni di Massimo D’Alema. Sotto, il vero Abbatino
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