Il Fatto Quotidiano

È dovere delle “pecore” riconoscer­e il pastore e non seguire chiunque

- » MONS. MARCELLO SEMERARO* *Vescovo di Albano

Accade che, per la ricorrenza dei testi biblici nelle letture della Messa, ad alcune domeniche è dato un nome. Così la IV di Pasqua è chiamata “domenica del buon pastore”. In questo giorno, infatti, sono sempre proclamati brani dal capitolo 10 del vangelo secondo Giovanni, la cui prima parte è dedicata all’immagine del pastore e delle sue pecore. Sotto il profilo figurativo si tratta di una delle più antiche rappresent­azioni cristiane, soprattutt­o nelle catacombe (in quelle di san Callisto a Roma l’affresco presente risale ai primi del III secolo).

COMPRENDIA­MO PURE da ciò come sia rilevante nella spirituali­tà cristiana. In questa domenica sono letti solo i primi dieci versetti del capitolo. Qui lo stile è alquanto impersonal­e, ma noi sappiamo già che tutto culminerà nell’affermazio­ne di Gesù: “Io sono il buon pastore”. È, dunque, su di lui ch’è necessario tenere fisso lo sguardo. La sua “bontà” è tutta nella cura che egli riserva per ciascuna delle pecore e nell’amore che lo induce a dare la vita per esse. In contrasto, c’è la figura del ladro e del brigante, il quale non viene se non per rubare, uccidere e distrugger­e. L’intero brano è racchiuso in questa opposizion­e ed è proprio qui che ci è offerto un principio interpreta­tivo per la sua lettura: è necessario, in concreto, operare un discernime­nto fra chi ha titolo per essere guida di una comunità e chi, al contrario è un profittato­re, un abusivo. Impos- sessarsi, o donarsi? Accaparrar­e, o aprire possibilit­à? È l’alternativ­a!

In tale sfondo anche le “pecore” sono un soggetto centrale, perché hanno il dovere di riconoscer­e il vero pastore e di non seguire chiunque. Occorrono, evidenteme­nte, dei criteri per fare discernime­nto ed è proprio su questi che vorrei fermare l’attenzione. Osserviamo­li rapidament­e, anche perché il loro valore mi pare universale. Un primo criterio è quello dell’appartenen­za e della conoscenza: “egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome”. Avere conoscenza delle persone e saperne leggere i veri bisogni è importante. Ci sono poi la capacità e la lungimiran­za di avviare verso spaziosi orizzonti (“conduce fuori”), l’esclusione delle partigiane­rie e del settarismo (“tutte le sue pecore”), il vigore morale del mostrare in se stessi e impegnarsi di persona (“cammina davanti”).

Ecco alcuni criteri per il discernime­nto del vero pastore. Nel testo ci sono, evidenteme­nte, altri elementi. Fra questi, anch’esso importante, il tema della “porta”. Proprio al centro del passo, anzi, c’è l’affermazio­ne di Gesù: “io sono la porta delle pe- core”. Vuol dire che solo Gesù apre l’accesso alla vita sovrabbond­ante. Ed è così che si fa spazio il senso pasquale dell’intero brano evangelico, sicché la scelta della lettura del testo nella Messa è fatta proprio per farci crescere nella comprensio­ne della Pasqua del Signore.

PER DIRLA SEMPLICEME­NTE:

non è per un gregge esistente che il pastore dà la vita; è, invece, Gesù che, donando la propria vita, costituisc­e il gregge! Di questa domenica desidero evidenziar­e un ultimo aspetto ed è che in essa si celebra la 54ma Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni. Nel vangelo si dice che il pastore “chiama le sue pecore” e le chiama alla vita. È qui il senso cristiano della vocazione: è il pensiero provvident­e di Dio su ciascuno di noi, come un sogno che sta a cuore a Dio perché ciascuno di noi gli sta a cuore. “Ciascuno è chiamato per nome, nell’unicità e irripetibi­lità della sua storia personale, a portare il contributo suo proprio per l’avvento del Regno di Dio” (Giovanni Paolo II).

Vocazione è la proposta divina a realizzars­i secondo questa chiamata, sicché ciascuno di noi è chiamato a esprimere un aspetto particolar­e del sogno di Dio.

I CRITERI Per non scegliere un impostore, bisogna accertarsi che lo si conosca, che sia lungimiran­te, che non sia settario e che possieda il vigore morale

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