Matteo Orfini, necessario come il destino
Dopo i successi da commissario a Roma, come fai a non premiarlo?
Matteo
Orfini, rieletto presidente del Pd domenica, coltiva quella capacità che rende unica gente tipo Luca di Montezemolo: sembrare inevitabile come il destino. Pare infatti che una rosa avrebbe lo stesso profumo con un altro nome, ma che sarebbe di un partito senza Orfini? Coerenza, competenza, successi: tutto questo vuol Orfini, chi ci rinuncerebbe?
LA SUA PRIMA citazione sull’archivio Ansa risale a una delle mille polemiche tra Veltroni e D’Alema: il nostro era segretario della sezione “Mazzini” dei
Ds a Roma, quella in cui era iscritto il Leader Maximo. E cosa diceva Orfini nel Duemila? Difendeva D’A l em a dalle critiche dei veltronia- ni: “Sono ingrati...”, s’accorava. Poi si sa, le cose cambiano e l’ingratitudine pure.
Il buon Matteo, che si definì “archeologo” pur non essendo laureato, è stato membro della corrente detta dei “Giovani Turchi” con Stefano Fassina (“chi?”) e Andrea Orlando. In anni recenti sostenne Pier Luigi Bersani contro Matteo Renzi: quella dell’allora sindaco di Firenze, scolpì nel 2012, “è una ricetta vecchia, una soluzione in continuità con quello che la sinistra europea ha fatto in questi 20 anni e che in parte è alla radice della crisi. Dire il liberismo è di sinistra, dire con Ma rc hi on ne senza sì e senza ma, dire non me ne frega niente dell’articolo 18, è mettersi in scia con quelli che vuole rottamare”.
Dopo la “non vittoria” alle Politiche 2013, finalmente deputato, sosteneva ancora Bersani come un leone: “O lui premier o al voto”, spiegava proprio a Renzi. E qualche mese dopo: “Pensa solo alla sua convenienza”. A settembre 2013, quando scoprì che Franceschini e gli altri ex Dc avrebbero sostenuto Renzi, si lasciò andare: “Siamo passati dalla rottamazione al riciclo. Una scelta ecologica, #ancheno #megliocuperlo”, twittò. Non fosse chiaro: “Coi professionisti del trasformismo non si cambia”.
Siccome poi Gianni Cuper- lo - e con lui la vecchia “Ditta” ex Ds - prese una tranvata storica alle Primarie, il nostro cominciò a re-impostare le sue priorità sul modello “con Renzi bisogna dialogare”, ma da sinistra ovviamente, posizione dalla quale, com’è noto, si dà precedenza a destra: “Oggi nemmeno gli imprenditori chiedono più di abolire l’articolo 18. Un Jobs Act che lo abolisse per i neoassunti sarebbe, nel migliore dei casi, completamente inutile”. Ancora a settembre 2014, Orfini offriva il petto al fuoco (“servono robuste correzioni”) e andava ai convegni della Cgil a ribadire che sul lavoro No pasarán! Poi, invece, votò a favore: “La mediazione del Pd sul Jobs Act non difende i diritti. Li esten- de”, spiegò a Camusso. E tanti saluti all’articolo 18 e pure a Gianni Cuperlo, che aveva votato no con altri 32 dem (“sono primedonne...”). Da allora Orfini è renziano di complemento: presidente del Pd al posto di Cuperlo e poi commissario del partito a Roma.
È QUESTO il suo capolavoro: prima promette che nessuno toccherà Ignazio Marino, argine a Mafia Capitale (“Renzi è d’accordo con me”), poi lo accoltella dal notaio. E ancora: riforma il partito d’imperio, ma il tribunale gli boccia le nuove norme su ricorso degli iscritti. In mezzo c’è stata la candidatura a sindaco di Roberto Giachetti, massacrato al ballottaggio, e infine le Primarie del 30 aprile: votanti 78mila, la metà rispetto a tre anni fa. Se si tiene conto che è pure forte alla playstation, come fai a non farlo presidente del Pd?
La traiettoria Partito da sinistra – visto il codice della strada – ha dato precedenza a Matteo, che veniva da destra