IL LAVORO FORZATO E I DIRITTI NEGATI
Dopo il Primo Maggio, è utile soffermarsi su un recente saggio pubblicato nelle n ewsletter di “Questione Giustizia” online, in cui Roberto Roversi rileva la vulnerabilità dei diritti dei lavoratori e le modifiche normative che li rendono difficilmente difendibili. La compressione della legalità può essere conseguita oggi facendo leva anzitutto sulla situazione di soggezione di un lavoratore reso muto, indebolito, isolato e interscambiabile (grazie alla totale liberalizzazione dei contratti a termine per i primi tre anni, al licenziamento per semplice fatto materiale o per fini di profitto dell’impresa); disponibile, di fronte a una stentata crescita occupazionale, a lavorare a qualsiasi condizione (sia retributiva, sia in termini di sicurezza) ed a rinunciare anche ai diritti e alla loro tutela processuale: mentre l’illegalità del lavoro aumenta, mentre l’Inps certifica che nel 2016 sono aumentati anche i licenziamenti del 28%, i dati rilevano il crollo delle vertenze e dei processi. Nel settore privato, dal 2012 al 2016, il numero dei procedimenti giudiziali si è ridotto del 69%. Il grave livello di illegalità che resta civilmente impunito, secondo l’autore, non può “essere rigettato come corpo estraneo confinato nella sola dimensione penale”(che serve quasi a rilegittimare il processo di “normale” erosione in corso). Ove quest’ultima affermazione voglia intendere che si punti a privilegiare, sul piano dell’impegno governativo e dell’informazione, la repressione penale dello sfruttamento dei lavoratori italiani e stranieri, va rilevata l’opposta posizione politico-mediatica.
RITORNO SUL TEMA dell’incomprensibile ignoranza della maggioranza parlamentare e dei mezzi di informazione sulla pluriennale applicazione dell’art. 600 cod. pen., che, dal 2003, prevede la reclusione da 8 a 20 anni per il datore di lavoro che, approfittando della situazione di necessità del dipendente e in genere della sua vulnerabilità umana ed economica, lo sottopone a una continuativa limitazione della sua libertà, nonché a condizioni di lavoro pericolose e a retribuzione sproporzionata- mente inferiore alla qualità e quantità delle sue prestazioni. La disciplina del lavoro forzato prevede una sanzione che lo rende concretamente imprescrittibile nonché le possibilità del raddoppio della durata delle indagini preliminari. Su tutto ciò silenzio: nel corso dei lavori parlamentari e dei commenti sulla nuova disciplina dell’intermediazione illegale (l.29.10.2016 sul cosiddetto caporalato), si è inneggiato al superamento di un iniquo vuoto normativo, ostativo alla punizione della sfruttamento imposto dall’i mprenditore o comunque dal datore di lavoro. Si omette però di rilevare che la pena è fortemente ridotta rispetto a quella prevista dal vigente articolo 600 del codice penale, essendo compresa tra uno e sei anni di reclusione, con tempi di indagini preliminari e di prescrizione co nse gue nte men te più brevi. La Corte di assise di Lecce – che sta esaminando fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della nuova legge e qualificati secondo la precedente normativa – ci chiarirà i rapporti tra questo doppione di reati di sfruttamento dei lavoratori e se le pene richieste dal pm, tra i 7 e i14 anni di reclusione in caso di accertamento del delitto di lavoro forzato, siano compatibili con la normativa più indulgente.
Come già anticipato, questo delitto ha come vittima ogni persona – italiana o straniera – che si trovi in una posizione di vulnerabilità, cioè che “non ha altra scelta effettiva e accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima”. Questa posizione è ancora più debole per gli immigrati illegali che non denunciano gli sfruttatori, in quanto la loro collaborazione con la giustizia – funzionale al “premio” del permesso di soggiorno temporaneo – comporta l’autodenuncia del reato di immigrazione clandestina, ex art. 10 bis del T.U. sull’immigrazione. La pena pecuniaria – blanda ma non sopportabile dall’immigrato – è sostituibile solo con la sanzione dell’espulsione immediata. Di qui l’esigenza di abrogare questa norma o di collegarla a una specifica causa di non punibilità a favore dello straniero clandestino, che sia vittima di reati di sfruttamento (A. Caselli Lapeschi).
NON VA INFINEsottovalutato un aspetto a futura memoria che riguarda la tanto ambita sicurezza: i primari utenti del lavoro forzato e disumano stanno coltivando una filiera intergenerazionale di rancore e di risentimento da cui ragionevolmente potranno gemmare reazioni vendicative e distruttive, come è già avvenuto in paesi colonialisti della civile Europa. Almeno per questo cinico motivo, i governanti potrebbero frenare il ritorno a metodi schiavisti di produzione di beni e servizi, che, oltre ad essere moralmente e costituzionalmente indegni, sono estremamente sovversivi.
* ex giudice della Corte di Cassazione