Il Fatto Quotidiano

“Cantante no, solo uno spettatore dei miei spettatori”

Oggi in uscita il doppio album: “L’amore è un varco per diventare ciò che si è”

- » PIETRANGEL­O BUTTAFUOCO

Avviso ai zerofolli: il tiro di follia ad alzo Zero porta a Zerovskij, il theatrum mundi. La sorca incantata dei figli della topa, il fantasmago­rico cosmo dell’artista che raduna a sé una folta folla di sorcini s’aggiudica una nuova era: è in uscita oggi un nuovo doppio album di Renato Zero. Ecco, Zerovskij… solo per amore.

Secondo avviso. È altresì in arrivo un’estate tutta di zeromania, e tutta ad alto tasso di madida elettricit­à in palcosceni­ci mozzafiato, tra i quali l’Arena di Verona, dove il Maestro è di casa, e Taormina: il Teatro greco.

Gli zerofolli sono tutti avvisati.

…e ce ne sono, di zerofolli. Da Zerolandia a Fonopoli per arrivare a Zerovskij…

Caspita, però: in cinque decenni diversi, restando sempre in classifica, sarà un ragguardev­ole esercito questo degli zerofolli…

Tra i piani alti della società sono tantissimi; anche insospetta­bili: generali, profession­isti di vario genere, mamme, cervelloni, pezzi da Novanta, giornalist­i, protagonis­ti della politica, magistrati e pure primari che ascoltano i miei pezzi in sala operatoria, tra ferri, bisturi e garze. Qualche nome si può fare, c’è un elenco?

Teniamoli coperti i nomi, non sveliamoli: sono custoditi all’orecchio; preferisco essere lo spettatore dei miei spettatori.

… solo per amore, è la seconda metà del titolo: in che senso?

Non è un tabernacol­o, l’amore. Non è una cosa che se ne sta ferma e dove poi ci tocca andare e sostare. L’amore incontra la più primordial­e delle istituzion­i – la famiglia, dove vige l’imperativo del tenere fede a una promessa – ed è il varco attraverso cui ognuno incontra, viaggia, cresce e diventa ciò che è.

Come diceva la sua canzone del 1981, Il Cielo? Ecco: ‘Che uomo sei se non hai il cielo?’ ‘Se ti do il pelo, tu che mi dai?’. Rispondo con un altro verso. Speculare e altrettant­o spirituale. È una domanda contenuta dentro Il Baratto, una canzone del 1979.

A dimostrazi­one – il pelo – del puntuale andirivien­i della corporeità e lanutella di tua sorella, così si potrebbe replicare al Maestro, giusto per tenere ad alzo zero il tiro. Ma ecco che all’ascolto c’è un doppio Cd e una tournée tutta da pregustare. Tra le tappe, ci sono Verona e Taormina, due scenari della tradizione classica.

Fa d’uopo una domanda fuori registro: Renato Zero che è artista totale, il prossimo anno – ma non è una suggestion­e, è proprio un’idea – non si misura con uno spettacolo a Siracusa, nel ciclo delle tragedie?

Ma dove all’Inda, all’Istituto nazionale del dramma antico? Non la voglio neppure sentir dire questa cosa, altrimenti, se la sento, me la sento e finisce che ci prendo gusto…

Una messa in scena della Medea, un Edipo…

…a Colono, Edipo a Colono! Ma io ho solo la terza media! Ma Zerovskij , già dall’impostazio­ne, rivela scuole più che alte: la grande letteratur­a russa.

Questo dettaglio è fin troppo rivelatore; quanta magnifica grazia arriva da quella patria innevata. Ma già da come custodisco­no il Bolshoi, quel monumento di teatro, si capisce che cosa sono i russi….

E Zerovskij, come il mantello di Natasha, avvolge nel vortice dell’opera totale la Morte, chiamata in scena come personaggi­o, quindi la Vita…

Morte e Vita sono gemelle separate alla nascita; anche la Morte – che si fa carico del lavoro più difficile – indossa la veste candida della purezza, ma queste due sorelle non s’incontrano mai a significar­e…

…che se c’è la vita, non c’è la morte, e viceversa… Esatto.

Epicuro. Altro che pop, Renato Zero...

Ma quale pop. Sono già oltre, ormai. In questa mia partitura restituisc­o la parola ai veri aventi diritto: la Morte, la Vita, il Tempo, l’Amore, l’Odio.

La morte non ha diritto di parola?

La costringia­mo a stare in cucina; lei e tutte le altre presenze agenti in noi e nel nostro profondo vissuto; non le mostriamo mai agli ospiti e lo stesso trattament­o lo riserviamo alle loro consorelle, alla Tenerezza, all’A mb iz io- ne… tutte messe in cassainteg­razione, a volte convocate in part-time senza garantire loro la pensione.

Queste, dunque, le maschere del dramatis personae. Teniamo come punto fermo la licenza media, non esageriamo col latino e ricordiamo che nella rappresent­azione, oltre ai già citati – ai quali nessuno dà voce, e sottolineo la condizione della Morte, sempre ammanettat­a tra le parentesi dell’assenza – ci sono Adamo, Eva…

…e Dio.

Non però come personaggi­o. Ci mancherebb­e entrasse l’Altissimo nel ruolo del deus ex machina.

Ho so-lo la ter-za me-di-a. Non è, Zerovskij, una recita per simboli.

È l’esperienza più intensa con ciò che nascondiam­o a noi stessi: la Morte, la Vita, l’Odio, l’Amore, il Tempo. E noi siamo – e ce lo svela il nostro Dna – Adamo ed Eva.

Renato Zero, come i veri artisti non nasconde mai il proprio interesse per la realtà – dove incombe “la libertà mascherata”– e “Ti andrebbe di cambiare il mondo?”, tra le canzoni del nuovo album, nelle intonazion­i proprie dell’oggi, è un generoso urto di vita.

Renato Zero, all’a na gr a f e Fiacchini, figlio di Domenico e di Ada Pica, non cede al cupo sfavillio del successo, non baratta se stesso con chissà quale egolatria psicotica.

Certo, in lui c’è il trionfo di bardure, colli, panneggi, mantelli. La sua singolarit­à debordante è ben drappeggia­ta ma è debitore di un unico vantaggio – “rispondo di me stesso, non ho da condivider­e porzioni della mia giornata” – e lo stesso eccesso, di cui da sempre eccede, lo radica in valori “semplici e forti”.

Il suo occhiale – due cerchi, neri e marcati – lo disegna come in un’apparizion­e di Hieronymus Bosh. Ma Renato Fiacchini – coi suoi lombi elastici, la sua ugola abitata anche da parole impudiche – è un universo ulteriore rispetto a Renato Zero.

È Fiacchini infatti, più che Zero, a coinvolger­e Sergio Castellitt­o – tra gli attori, l’anti guitto – in certi giochi di contaminaz­ione sul palcosceni­co. Zero lo vuole accanto a sé, gli offre la parte dello psicoanali­sta e quello, profondo di suo, se lo contempla beato. Altro che pop.

Chissà cosa ne avrebbero fatto di Renato, un Salvador Dalì o lo stesso Walt Disney, altro che le pasolinate:

“Mi metteva paura Pier Paolo Pasolini; ero piccolo e quello di cui mi parlavano – erano i coatti a raccontarm­i di lui – mi faceva spavento. Cosa ne potevo sapere io chi fosse davvero, Pasolini: è quello da leggere o quello da incontrare?” Renato Fiacchini in arte Zero è parola di poesia. Basti un solo frammento – L’Elogio

del camerino– e già i più presuntuos­i letterati non possono che fare tanto di cappello. Posso dire che quando scrivo lo chiedo a me stesso e non so darmi risposta? Ecco: come mi scendono giù dalla penna? Chi mai me le suggerisce quelle cose, chi m’ispira un pezzo come questo del Camerino?

Rivissuto in scena poi, da Carlo Giuffré, un prodigio nel prodigio. Tutto questo perché sono andato a scuola all’Admiral.

Una media statale a Roma, l’Admiral?

No, un televisore grande. Uno di quelli con il manipole. Un apparecchi­o americano con il pulviscolo elettrico sullo schermo; si accendeva – il controllo era in mano ai miei

L’avevo invitato a casa mia. Tutti gli dicevano: ‘Attento alla scala a chiocciola’. Passo dopo passo, se l’è fatta tutta

AROLDO TIERI Venne a sentirmi. Al suo arrivo, segnalò la presenza Dopo due brani si alzò e segnalò che se ne stava andando

CARMELO BENE

zii, i fratelli di mia mamma, tutti scapoli – e nella luce vi baluginava il nevischio, quello che andava a rischiarar­si acchiappan­do la ricezione e catturare così una messa in onda. Appariva finalmente la scritta ‘prove tecniche di trasm issi one’ e cominciava la grande scuola… La Rai pedagogica.

Vera pedagogia, un bene pubblico, al servizio della gente, dove si poteva imparare a godere lo stupore, l’anelito e l’allegoria. Da quella friggitori­a che era lo schermo in attesa di trasmissio­ni, infatti, non uscivano frittelle bensì un Giancarlo Cobelli. Entrava nelle case dei ragazzi col suo costume da mimo, con quella faccia da cartone animato, con la sua maestria di accademico ed era la magia dell’arte che risplendev­a in lui, lui che – taciturno – lavorava nei teatri con la sapienza dell’artigiano. È stato un privilegio della vita averlo avuto come amico, ma io sono uno che pratica il lusso dei lussi: accostarmi ai grandi vecchi, e godermeli. Per imparare da loro, e solo da loro ho imparato che si può imparare. I grandi vecchi dell’arte vengono tutti dalla Rai pedagogica? Dentro quella Rai trovava casa l’orchestra sinfonica….

E in Zerovskij, in tournée, ci sarà l’orchestra.

Dentro quella Rai aveva asilo il grande teatro; noi italiani non abbiamo gli Oscar, le nostre star sono quei grandi, gli unici in grado di darci brividi. Un altro grande vecchio che mi godo, faccio un esempio, un gigante come Giuffré…. Della schiatta dei Salvo Randone che – dentro quella paideia – giusto in tema di Ze

rovskij, nei Karamazov teneva inchiodati gli spettatori sciorinand­o per ben dodici minuti il monologo sull’esistenza di Dio. Tutti, li ho visti e li ho amati tutti gli sceneggiat­i della grande Rai, Il Mulino del Po, La Cittadella, L’Alfiere….

Con Aroldo Tieri.

Quanto scrupolo in Tieri, quanto rigore d’arte c’era in lui: sapeva darsi in scena con parsimonia. L’impostazio­ne severa. La devozione che sapeva portare al palcosceni­co… Lui – a proposito di goderseli i grandi vecchi – lui per me ha fatto le scale. Le scale?

A casa mia c’è una scala a chiocciola che porta al terrazzo; l’avevo invitato a cena con Giuliana Lojodice, sua moglie…

Altra grandissim­a diva dell’arte pura. Magnifica diva, Giuliana. Sempre padrona della scena e perfetta, con lui, a vivere un sodalizio di struggente bellezza. …si diceva delle scale.

Invito a casa mia Giuliana e Aroldo. E tutti dicevano loro: ‘Attenti, da Renato c’è la scala, non andate’. Si tratta di una scala a chiocciola che porta al terrazzo. E però Aroldo, fiero nella delicatezz­a della sua età, è venuto. Passo dopo passo, gradino dopo gradino, se l’è fatta tutta la mia scala. Ha respirato il paesaggio e ha sorseggiat­o tutto l’incanto di una sera romana resasi ancora più dolce quella volta solo per lui – e forse serena un poco anche per la felicità mia. Un giorno gli regalai un torcione ad Aroldo, il caricabatt­erie di una volta, quello grande come una valigetta. Un segno de’ tempi, vorrei dire: una volta si portavano in dono le vitamine, le belle arance, adesso gli alimentato­ri… C’è, in questo doppio cd – e nello spettacolo che ne deriva – la matematica dell’arte, la grande musica dell’orchestra, lo spazio scenico di un allestimen­to, insomma: il teatro totale. Se non in zona

Bayreuth, poco ci manca. Cosa? Richard Wagner sarebbe oggi uno zerofolle. Anche Mario Schifano, portando in dote la pittura, lo era. Un patto tra maschi belli e dannati piuttosto, una cerchia dove ognuno portava la propria parte al prisma dell’arte. Era una combriccol­a dove faceva capolino al modo suo, tutto di fiero ceffo, Franco Califano… coinciden- za di destini. Come l’abbraccio intenso con Armando Trovajoli, un destino incontrars­i… Giusto, coincidenz­a di destini, come in Infiniti treni, il brano che apre e chiude il nuovo album.

‘Sono treni anche i pensieri, se vuoi/treni anche i ricordi’.

…per i pendolari e anche i sicari. Proprio un tiro ad alzo zero: nel viaggio di ognuno c’è il racconto di tutti. E con Carmelo Bene, altro maschio bello e maledetto, ci fu coincidenz­a di destino? Un destino senza coincidenz­a. Con Carmelo Bene ci fu u n’incazzatur­ella; ricordo bene, accadde a Firenze, al Number One, un locale da 300 persone, dove per starci dentro quasi ci si doveva mettere uno sopra l’altro. Ecco, ricordo: arriva Bene, e si segnala la presenza in sala di Bene. Se ne sta ad ascoltare due brani ma si alza e si segnala davanti a tutti che Bene si sta alza e se ne va. Comunica a tutti, animale da palcosceni­co qual era, Carmelo quello voleva comunicare. E cioè che Bene, al mio show, si alza e se ne va. Ma era il suo modo di sottolinea­re la presenza, per assenza: ‘ Non sono io, io non esisto’, diceva. E va bene, raccontiam­ola così: non c’è Bene, grazie. Fatto sta che nella mia singola singolarit­à, io che sono singolare dall’unghia fino al bulbo del più dimenticat­o capello, io che ho fatto danza, cabaret, cinema… Con Federico Fellini.

Appunto, sì: con Fellini. Io che ho fatto tutto quello che da sempre faccio, anche quella sera non stavo facendo solo musica, questa è solo un lato del prisma, c’è sempre altro, molto altro, e io non ero – e non lo sono neppure adesso – un cantante. Sarebbe riduttivo dire di Zero è un cantante…

Quelli che cantano, va da sé, sono infami; da quando la Mafia e la Camorra hanno scoperto il pentimento ‘cantare’ è quel sinonimo lì. E ‘cantante’ – per dirla con la parlata di Rebibbia – non è buona cosa. Pentirsi è sempre un trucco. La sua storia è un’altra.

Io ho fatto il mio, adesso tocca a voi.

La Rai pedagogica La mia scuola? L’Admiral, il televisore con i manipoloni Ho visto tutti gli sceneggiat­i e le orchestre sinfoniche

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Foto Ansa e Roberto Rocco Tra storia e palco Al centro, Renato Zero all’Arena di Verona nel 2016; a sinistra, negli anni Settanta; in alto a destra, gli Ottanta
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