Il Fatto Quotidiano

Gesù insegna ai discepoli la fede come antidoto contro il turbamento

- » MONS. MARCELLO SEMERARO *

Il primo dato registrato dal testo evangelico proclamato in questa domenica è il turbamento, l’agitazione sopraggiun­ta nel cuore dei discepoli alla prospettiv­a dell’addio da parte di Gesù. Uno dei motivi di fondo delle sue parole è, perciò, l’incoraggia­mento a superare la paura. Dalle sue labbra spunta così la parola-chiave, che è “fede”. Nella lingua ebraica questo termine (conservato nella liturgia cristiana) è

amen; una parola che suggerisce l’idea della fermezza, della solidità, della stabilità, come di una roccia. Dio è l’Amen, sul quale l’uomo può poggiare la sua vita per darle solido fondamento; Dio è uno al quale si può dare piena fiducia. “Abbiate fede in Dio”, dice Gesù.

È BEN PIÙ dell’avere solide convinzion­i, dei punti fermi nella vita. Siamo in tempi di pensiero debole, di liquidità… e ciò potrebbe non convincere qualcuno. Quando, però, parla di Dio Gesù lo chiama “Padre”. Si noterà che nelle poche righe di vangelo oggi proposte questa parola ricorre ben dodici volte. “Padre” è un nome personale, ricco di vita. Gesù gli accosta la parola “casa”, anche questa evocatrice di affetti, di custodia, di riposo. Parla, per di più, di una casa non angusta a misura delle nostre ristrettez­ze, ma spaziosa quanto grande è il cuore di Dio: “Il Padre stesso infatti vi ama – dirà Gesù – perché voi avete amato me e avete creduto che io sono uscito da Dio” (Gv 16,27). Anche ora dice: “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me”. Egli, dunque, indica ai discepoli di ieri e oggi a noi, la fede come antidoto per il turbamento, la tristezza.

Non è una ricetta per stare allegri, o per risolvere i problemi quotidiani, ma l’offerta di un solido punto di appoggio quando ti senti franare la vita; l’indicazio- ne di un percorso per uscire da un vicolo chiuso. Non a caso Gesù si propone ai discepoli come “via” verso il Padre. Non solo a loro, ma pure a chi, come Tommaso, dice: “Non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?”.

Effettivam­ente, come si fa a intraprend­ere un viaggio senza prima conoscere la meta? La storia della fede biblica, però, è cominciata proprio così: “Pe r fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava” (Ebr 11,8). Al discepolo Gesù chiede di avviarsi sulla strada che è lui in persona. È lui stesso a portare, per la relazione unica di inerenza che egli ha con Dio: “Io sono nel Padre e il Padre è in me… Chi ha visto me, ha visto il Padre”. Ci fa anche capire che il Padre non è un’entità misterio- sa, inconoscib­ile, sfuggevole. Basta vedere Gesù, le sue “opere”: è lì che il Padre si mostra e da lì si comprende qual è l’agire del Padre, cosa c’è nel cuore del Padre, qual è il suo pensiero per noi. È stato detto che Gesù fu condannato e messo morte non per la sua dottrina su Dio, ma per l’agire che egli attribuiva a Dio: un Dio anzitutto dell’uomo, prima che del “sabato”; un Dio che perdona per rendere “giusti”, non solo dopo avere fatto giustizia; un Dio che non appesantis­ce il fardello sull’uomo, ma si fa carico della sua pena e lo rimette in piedi.

HO LETTO: “A questo la fede serve! Serve veramente a non perdere mai la coscienza di essere amati, anche quando non amiamo, di essere pensati, anche quando non pensiamo, di avere qualcuno che veglia su di noi, anche quando dormiamo, di essere interpella­ti, anche quando non vogliamo rispondere” (G. Gennari). Un’altra cosa vorrei sottolinea­re ed è come Gesù apra alla libertà i suoi discepoli. La sua presenza accanto a loro d’ora in avanti non sarà più fisica (a ben vedere ogni presenza fisica, anche la più affettuosa e delicata, toglie spazio), ma “altra”. Interiore, per il dono dello Spirito Santo. * Vescovo di Albano Laziale

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