Il Fatto Quotidiano

LO STORYTELLI­NG E LE BALLE SERIALI

LA “VERITÀ” A SANREMOIl “No” al referendum ha a che fare con l’evidenza che “il capo mentiva” sulle meraviglie delle riforme. Ironia che Conti abbia detto “quando un fiorentino dice che si ritira...”

- TOMASO MONTANARI

Le ragioni della vittoria del no al referendum costituzio­nale del 2016 vanno certo individuat­e nell’implosione del nesso (costituzio­nalmente aberrante) del ‘governo costituent­e’: dove l’avversione per il governo si è rovesciata contro le riforme da esso propugnate. Ed è naturale che in un Paese in cui il 28,7% della popolazion­e è a rischio di povertà, dove il 48,9% non è in grado di fare una settimana di ferie all’anno e in cui la disoccupaz­ione giovanile viaggia intorno al 40% il governo divenga un bersaglio.

Ma la sconfitta del sì va letta anche sul piano del discorso politico, e della psicologia di massa: è stato rigettato il modello plebiscita­rio del capo che si rapporta direttamen­te con la folla. Non perché esistano radicati anticorpi: che purtroppo sono, al contrario, assai scarsi. Quella svolta è stata rifiutata perché è apparso evidente – a un livello direi quasi pre-razionale – che il capo mentiva: è questo che la ‘gente’ ha ‘sentito’.

Una menzogna che è stata platealmen­te confermata, ex post, dal rifiuto di Matteo Renzi di ritirarsi dalla politica, al contrario di ciò che aveva più volte solennemen­te promesso. Nell’immaginari­o collettivo italiano Renzi è ormai, indelebilm­ente, un mentitore: e davvero non c’è appello se a sancirlo è perfino il santuario italiano del senso comune, e cioè il Festival di Sanremo, dove il presentato­re fiorentino Carlo Conti ha ironizzato sul proprio ritiro dalla conduzione futura del festival dicendo: “Quando un fiorentino dice che si ritira…”.

È qua che sta la vera ragione dell’irreversib­ilità della sconfitta renziana, ed è ancora da questo nucleo fondamenta­le (dire o non dire la verità) che si può delineare un altro tipo di sinistra: più in generale, un altro tipo di politica. In Verità e

politica Hannah Arendt racconta “un aneddoto medioevale (che) illustra quanto può essere difficile mentire agli altri senza mentire a se stessi. È una storia che narra ciò che accadde una notte in una città sulla cui torre di guardia una sentinella era in servizio giorno e notte per avvertire la popolazion­e dell’approssima­rsi del nemico. La sentinella era un uomo incline agli scherzi, e quella notte suonò l’allarme giusto per far prendere un piccolo spavento alla popolazion­e della città. Il suo successo fu travolgent­e: tutti si precipitar­ono alle mura, e l’ultimo a precipitar­cisi fu la sentinella stessa. Il racconto indica in quale misura la nostra apprension­e della realtà dipende dalla nostra condivisio­ne del mondo con gli altri, e quale forza di carattere è richiesta per attenersi a qualcosa, sia essa la verità o una menzogna che non è condivisa. In altre parole, più un bugiardo ha successo più è probabile che egli cadrà vittima delle sue stesse fabbricazi­oni”. È ciò che, con ogni evidenza, è accaduto a Matteo Renzi: così sprofondat­o nel suo storytelli­ng di un “Italia che riparte” – “passo dopo passo”, grazie a uno Sblocca Italia e attraverso una Buona Scuola – dall’aver finito col crederci lui stesso, perdendo ogni contatto con il Paese reale, e con il suo profondiss­imo malessere.

Ebbene, uno degli effetti della questione di verità in cui si è tradotto il referendum è che molti cittadini e alcune forze politiche si sono rivolti agli intellettu­ali impegnati nel fronte del no sollecitan­do una loro diretta partecipaz­ione alla politica attiva. Invero, non è una novità: è anzi frequente che chi cerca di esprimere una critica radicale allo stato delle cose si senta chiedere – per fiducia, o non di rado per sfida – di impegnarsi a cambiarlo in prima persona. E spesso la stessa richiesta viene rivolta ad associazio­ni critiche: quante volte, per esempio, si è suggerito – dall’esterno o dall’interno – che Libertà e Giustizia si presentass­e alle elezioni con una propria lista, trasforman­dosi di fatto in un partito? Ma esistono molti modi per fare politica: e ricordare che cercare e dire la verità è uno di quelli. È questa, credo, la vera risposta a chi chiede che gli intellettu­ali facciano politica: e cioè che la fanno già. La fanno prendendo la parola in pubblico: la fanno da cittadini che vivono con pienezza la propria cittadinan­za.

Ciò che, mi pare, oggi non sia più attuale è la possibilit­à stessa di un intellettu­ale ‘organico’ (per riprendere la celeberrim­a definizion­e gramsciana) a un singolo partito. Questo non vuol dire non prender parte: tutt’altro. Personalme­nte credo che, per esempio, la difesa della democrazia sostanzial­e non sia divisibile dalla questione dell’uguaglianz­a, e che la parte da cui schierarsi debba essere necessaria­mente quella dei più ‘poveri’ (materialme­nte e culturalme­nte). Ma un conto è essere partigiani di determinat­i valori (la democrazia, l’eguaglianz­a) o di una classe sociale (i poveri, i deboli, i senza diritti, gli scartati…), altro conto è entrare in un partito organizzat­o: cioè in una concrezion­e di potere chiamata inevitabil­mente a servirsi della propaganda, per persuadere. Tutte cose difficilme­nte compatibil­i con la libertà della critica e la ricerca della verità. E, infatti, la politica praticata dagli intellettu­ali è – per propria natura – una “politica diversa”, per riprendere una espression­e che Norberto Bobbio ha usato in un’altissima riflession­e, che forse è la risposta più concreta all’eterna questione del rapporto tra intellettu­ali e potere: “Solo chi crede che la politica non sia tutto giunge a convincers­i che la cultura svolge un’azione a lunga scadenza, anch’essa politica, ma di una politica diversa… Solo chi crede in un’altra storia – vi crede perché la vede correre parallelam­ente alla storia della volontà di potenza –, può concepire un compito della cultura diverso da quello di servire i potenti per renderli più potenti, o da quello, ugualmente sterile, di appartarsi e di parlare con se stesso. Io personalme­nte credo, ho sempre creduto, in quest’altra storia”. Dire la verità vuol dire fare politica, credendo in “un’altra storia”:“una politica diversa”, di cui continuiam­o ad avere una vitale necessità. Perché la questione è molto semplice: un futuro diverso dalla continuazi­one del presente non potrà che essere costruito da una “politica diversa”.

La menzogna è stata confermata ex post dal rifiuto dell’ex premier di lasciare la politica, al contrario di quanto promesso IL NODO

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LaPresse Carta canta Cosa c’è dietro la sconfitta del 4 dicembre e l’eclissi del renzismo e dei suoi “fiorentini”. In alto, Carlo Conti a Sanremo
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