Io, ghostwriter vendo l’anima agli scrittori (a forfait)
Pubblichiamo il testo che la ghostwriter Vani Sarca ha consegnato alla scrittrice Alice Basso, autrice di “Non ditelo allo scrittore”, da domani in libreria.
Essere un ghostwriter è un lavoro schifoso. Scrivi con la penna degli altri, la voce degli altri, la testa degli altri, su faccende di altri. Se il risultato è buono, non te ne prendi il merito; se è cattivo, colpa tua. Se, da bravo scrittore, cerchi d’istinto le parole migliori per esprimere qualcosa, da ghostwriter devi buttarle e sceglierne altre, cioè quelle che userebbe il tizio che firmerà il libro al posto tuo. Tizio che, nella mia esperienza, di solito è un cretino – altrimenti il suo libro se lo saprebbe scrivere da solo – o come minimo uno che non riconosce alle parole la giusta importanza – altri- menti il suo libro ci terrebbe a scriverselo da solo.
NON DEV’ESSERE per forza sempre così. Non è che solo cretini o cafoni possano aver bisogno di un ghostwriter. Ma io, che faccio questo mestiere da una decina d’anni, sembro destinata a lavorare solo per gli stronzi. Mai che mi sia capitato di scrivere, che so, le memorie di un ex partigiano, il testamento spirituale di uno scienziato, l’autobiografia di un filantropo, insomma roba di qualcuno che ha del buono da dire e semplicemente non è tenuto a saperlo anche dire bene. Non sarebbe mica disdicevole, prestare la penna a questo genere di persone. Invece a me toccano le dissertazioni iperliberiste di un imprenditore datosi alla politica. Le memorie autoassolutive di un ex ministro pluriindagato. O di una soubrette ninfomane. O di uno sportivo dopato.
Come dicevo, un lavoro schifoso.
Il peggio, comunque, è lavorare per i romanzieri. Ah, lì sì che il ghostwriting diventa truffa. Perché un romanzo è un pezzo d’anima, parliamoci chiaro. In un romanzo non ci sono solo dei personaggi, una trama, un finale: ci sono dei valori, delle aspirazioni, una visione del mondo, un certo tipo di senso dell’umorismo, uno stile. Un romanziere non offre solo una storia, al lettore: offre se stesso. E il lettore, quando legge un romanzo, non ha la sensazione di avere, be’, solo letto un romanzo: sotto sotto, si ritiene legittimato a pensare di avere conosciuto lo scrittore. Dunque, quando scrivi per conto di un romanziere in crisi da pagina bianca o troppo impegnato a sceneggiare per la tivù per consegnare in tempo il nuovo libro al suo editore, non gli stai vendendo la tua penna, ma la tua anima, che lui possa sfoggiare col lettore. Anzi, non gliela stai nemmeno vendendo: gliela stai regalando proprio. Lui la rivenderà al lettore, in cambio di affetto, ammirazione e plauso; ma tu a lui l’avrai proprio sganciata gratis. Perché è palese che quei due soldi forfait che ti arriveranno sul conto non copriranno neanche lontanamente il valore di un’anima – un bene rarissimo, di questi tempi.
Tutto questo per ribadire: il ghostwrit ing è un lavoro schifoso.
Oddio, un risvolto buono ce l’ha. Dopotutto, più è deprecabile la persona di cui si devono assumere le sembianze, più si ha un effetto catartico, da Halloween esistenziale: indossi la maschera del mostro che devi interpretare, provi com’è essere lui per un po’, poi arriva l’alba, ti levi la maschera ed ecco il sollievo. Più che una maschera è come se avessi indossato una tuta da biohazard: sotto ti riscopri incontaminato, e ne sei entusiasta.
Resta comunque un lavoro schifoso.
ALMENO POTESSIMOlamentarcene insieme. Come insegnanti frustrati in sala professori. Ma fra di noi non ci conosciamo: i nostri datori di lavoro ci vincolano contrattualmente, non vogliono che si crei una lobby di ghostwriter che condividono segreti e retroscena. E questa è un’altra ragione per cui il nostro mestiere fa schifo: gli impiegati si trovano a parlare del loro lavoro alla macchinetta del caffè, gli operai negli spogliatoi, i ladri in carcere; io non
LA CATARSI Indossi la maschera del mostro che devi interpretare, provi com’è essere lui, poi ti levi la maschera ed ecco il sollievo
conosco nessuno con cui parlare del mio.
Però qualcosa sta cambiando. Ieri il mio editore m’ha convocata e m’ha detto: ce n’è in giro un altro. Ma certo, gli ho risposto, il mondo è pieno di ghostwriter, e che non lo so. No, mi fa, un altro proprio come te. Un altro che ha scritto un romanzo di successo quanto quelli che hai scritto tu. Che sta dietro a nomi grossi quanto quelli a cui stai dietro tu. Bisogna andare da lui, parlarci, convincerlo di una certa cosa – è una storia lunga, complicata, non sto a spiegarla qui; c’entrano prestigio, reputazione e soprattutto tanti, tanti soldi. Fatto sta che bisogna entrarci in sintonia, essere persuasivi. Entrare nella sua testa. E chi meglio di una ghostwriter per entrare nella testa di un altro ghostwriter?
Così oggi vado a conoscere un mio simile. Come gli ultimi due umani che si cercano su un pianeta conquistato dagli alieni, per la prima volta incontrerò un altro come me.
CHISSÀ CHE TIPOsarà. Se sarà il mio specchio oppure no.
Sono un po’curiosa e un po’ preoccupata.
Nel dubbio, spero che la tuta da biohazard sia chiusa bene.