Il Fatto Quotidiano

Addio spigole e orate italiane: mare nostrum vuoto in 3 mesi

Pesca selvaggia, inquinamen­to e clima: da aprile dipendiamo dal mercato estero

- » STEFANO CASELLI

Ma com’è possibile che con un affaccio di ottomila chilometri di coste sul Mediterran­eo, dove nuotano almeno 300 specie ittiche, l’Italia abbia esaurito la sua pesca in tre mesi? “Essere sul Mediterran­eo – ci racconta il biologo marino Silvio Greco – è un’arma a doppio taglio: ci sono ventidue Paesi rivierasch­i, sette comunitari e quindici extra, e questo si riflette pesantemen­te sulla gestione delle risorse. Noi dobbiamo rispettare il periodo di fermo biologico, la misura della maglia delle reti, non possiamo pescare a strascico il sabato e la domenica. Strumenti necessari per la gestione di una fonte rinnovabil­e di cui molti se ne infischian­o”.

Per esempio? “Lampedusa è territorio italiano, ai pescatori lampedusan­i in alcuni giorni non è consentito uscire in mare, ma sulle stesse acque pescano tranquilla­mente i tunisini, che si spingono fino a Lampione, uno scoglio dell’Isola”.

INSOMMA, non possiamo pescare, ma questo non significa che il nostro mare sia pieno di pesce, anzi. Il Mediterran­eo è un malato grave che soffre di pesca selvaggia, inquinamen­to e cambiament­i climatici: “Abbiamo problemi – ancora Greco –, manca il prodotto. Il mercato richiede pesci bistecca, tonno e pesce spada su tutti, e questi hanno un ciclo vitale lungo. Il tonno rosso, per esempio: dal 2006 la pesca è ben regolament­ata, il mare è tornato a riempirsi di tonni, ma sono giovani e per essere pescati è necessario che si riproducan­o, e perché ciò accada è necessario un ciclo che va da cinque ai sette anni. È inutile che si gridi ‘il mare è pieno di tonno, torniamo a pescarlo’. Non è così”.

L’ideale per il consumo, dunque, è il pesce a breve ciclo di vita: triglie, naselli, sgombri, e pesce azzurro in generale, palamite, sarde e acciughe. Un pesce ha una vita mediamente breve ha molte meno possibilit­à di contaminar­si con le sostanze inquinanti presenti nel Mediterran­eo (l’ultimo allarme riguarda i frammenti di microplast­ica, 250 mila al chilometro quadrato) e – grazie alla riproduzio­ne continua – la pesca non ne intacca la rinnovabil­ità. Ma i rischi sono altri, e derivano dal cambiament­o climatico: “C he non è uno scherzo – si accalora il biologo marino – se per- siste questa siccità, il ridotto flusso di acqua dolce verso i mari metterà a rischio la sopravvive­nza, per esempio, delle acciughe, che rischiano seriamente di estinguers­i”.

E le specie sono a rischio anche per colpa della pesca dissennata. Per decenni abbiamo depredato le acque pescandola“neonata ”, togliendo così un anello importanti­ssimi della catena alimentare. Si è creato un vuoto che è stato riempito dalle meduse, “specie opportunis­ta” che – a differenza dei “bianchetti” – non vengono mangiate dai pesci più grandi ma anzi si nutrono di uova e giovanili di pesce.

Il risultato di tutti questi e altri fattori è che l’Italia è al 42esimo posto nella graduatori­a mondiale dei Paesi esportator­i di pesce ma addirittur­a al sesto per quanto riguarda l’ importazio­ne.

Il consumo pro capite da noi tocca i 25,1 chili l’anno, ma di questi, secondo il Wwf, soltanto sei provengono dalla produzione locale. La maggior parte del pesce che consumiamo sulle nostre tavole, quasi il 20 per cento, proviene dalla Spagna, che in quanto a estensione costiera non ha nulla da invidiare all’Italia, ma se scen- diamo le posizioni (Danimarca e Olanda, rispettiva­mente 6,9 e 5,5 per cento) il discorso cambia. Per quanto riguarda i Paesi extra Ue, da cui arriva il 55 per cento del prodotto importato in Italia, i maggiori fornitori sono Marocco, India, Vietnam e Cina.

SE SULLE NOSTRE TAVOLE finisco prodotti non autoctoni è necessaria­mente un male? “Non è un problema – conclude Greco – se il prodotto è fresco, anche se l’imp at to ambientale dei viaggi aerei è evidente. Il problema semmai è sul surgelato, un altro mondo. Dal mercato cinese arrivano seppie, totani e calamari trattati e sbiancati a prezzi ridicoli. Io mi preoccuper­ei a mangiare pesce sbiancato e trattato con conservant­i. Nessuno ha niente contro la globalizza­zione, ma bisogna porsi interrogat­ivi anche rispetto al lavoro: nel Sud-est asiatico i marinai della pesca oceanica del congelato sono spesso schiavi, magari raccattati nelle taverne ubriachi e messi su una nave per sei mesi o un anno”.

Ogni volta che si va in pescheria dunque, dopo aver controllat­o che il pesce sia fresco (“non deve avere odore, il pesce non puzza e deve essere colorato: triglie e pagelli sono rossi, non grigi”) può essere utile chiedersi anche dove sia stato pescato.

Calamari vietnamiti Siamo il 42esimo esportator­e del mondo, ma il sesto per importazio­ne

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LaPresse Povere acqueIl settore è in forte crisi

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