L’Istat: le disuguaglianze stanno sfibrando il Paese
Rapporto annuale Classi sociali frantumate e 6,5 milioni di senza lavoro. Continua la fuga all’estero
La
sintesi più spietata del rapporto annuale Istat 2017 è in un grafico sull'andamento del Pil nel 2010-2016 che compare nel primo capitolo (“L'economia italiana”): si vede un calo continuo, con sprofondi, fino al secondo trimestre 2013 (inizio del governo Letta); da lì in poi la linea è comatosa con variazioni dello zerovirgola. Il 2016 ha chiuso a +0,9%, circa sette punti sotto il 2007, l'anno pre-crisi; la disoccupazione è calata per il secondo anno di fila, ma di un misero 0,2% (11,7% da 11,9% del 2015) e sei milioni e mezzo di persone non hanno un lavoro ma lo vorrebbero. L'Italia è in questa situazione qui.
Il resto ne consegue. Il tradizionale dossier, arrivato alla 25esima edizione, segnala il costante invecchiamento della popolazione e l'acuirsi delle disuguaglianze che frammentano le classi sociali. Nel primo caso, nel 2016 si è registrato un nuovo minimo storico delle nascite (474mila), un dato che “non si registrava dalla metà del 500” ha spiegato il presidente dell’Istituto Giorgio Alleva. Il saldo naturale (la differenza tra nati e morti) l'anno scorso ha segnato il secondo maggior calo di sempre (-134mila) dopo il 2015. A fare peggio, però, è la dinamica demografica dei cittadini italiani, di cui è negativo sia il saldo naturale (-189 mila) che quello migratorio con l'estero (-80 mila), che invece torna positivo se si considerano anche gli stranieri: è la conferma del lento esodo di italiani all'estero che va avanti da anni. Secondo l'Istat se ne sono andati in 147 mila nel solo 2015. Secondo il Consiglio generale degli italiani all’estero, che tiene conto delle registrazioni obbligatorie che i nostri connazionali devono fare nei Paesi in cui arrivano e non solo del cambio di residenza (usato dall'Istat), tra il 2007 e il 2016 se ne sono andati 1,5 milioni di italiani.
“SCOMPAIONO la classe operaia e la piccola borghesia”, titolavano ieri i siti. In realtà non scompare un bel nulla. L’Istat traccia una nuova mappa so- cio-economica dell’Italia, dividendo il Paese in nove gruppi in base a reddito, titolo di studio, cittadinanza e non guardando così più solo alla professione, come nelle tradizionali classificazioni. I due sottoinsiemi più numerosi sono le “famiglie di impiegati”, appartenente alla fascia benestante (12,2 milioni di persone) e delle “famiglie degli operai in pensione”, fascia a reddito medio (10,5 milioni di per- sone). “La disuguaglianza sociale non è più solo la distanza tra le diverse classi, ma la composizione stessa delle classi”, spiega l'Istat: al loro interno aumentano i divari “con una perdita di identità legata alla precarizzazione e alla frammentazione dei percorsi lavorativi”. In questo contesto la “classe operaia ha perso il suo connotato univoco” e “la piccola borghesia si distribuisce su più gruppi sociali. “Oggi la prima - osserva l’Istat - ha abbandonato il ruolo di spinta all’equità sociale mentre la seconda non è più alla guida del cambiamento e dell’evoluzione sociale”. La classe operaia si distribuisce per metà nel gruppo di famiglie con reddito medio, la restante nei nuclei a basso reddito.
PESSIMI anche i dati sulla condizione sociale: nel 2015, le persone a rischio di povertà o esclusione sociale sono il 28,7%. Dopo l’ a u m e n t o dell’incidenza dei poveri “assoluti”, sale anche l’indicatore di grave deprivazione materiale (11,9% da 11,5% del 2015). A stare peggio sono i residenti nel Mezzogiorno. Come altrove, la disuguaglianza è aumen- tata: “A mitigare questo effetto è stato solo l’azione redistributiva pubblica, che in Italia però non ha accelerato”. Difficile farlo con i vincoli di bilancio.