Il Fatto Quotidiano

La natura è più forte delle convenzion­i Anche negli Stati Uniti

- » CAMILLA TAGLIABUE

L“IL CASELLANTE” AL SISTINA L’opera di Camilleri disegna una Sicilia arcaica e moderna, comica e tragica. Dal 23 al 28 maggio arriva a Roma, prodotto da Promo Music-Corvino Produzioni e Centro d’Arte Contempora­nea Teatro Carcano. In scena la compagnia capitanata da Moni Ovadia, Valeria Contadino e Mario Incudine abile è il confine tra libertà e stupidaggi­ne, emancipazi­one e ostinazion­e, soprattutt­o nelle anime belle degli adolescent­i: campioness­a di ingenuità puerile è certamente Catherine Sloper, che vuole a tutti i costi, e contro la volontà paterna, sposare Morris Townsend, un truffatore conclamato – peccato che lei lo capisca solo alla fine della storia, quando lui torna in lacrime da lei a chiederle di “restare amici”.

Al cuore di Wa s h i n gt o n Sq ua re , romanzo di Henry James del 1880, sta proprio l’irresponsa­bile amore di Catherine per Morris, che sconvolger­à i precari equilibri della famiglia Sloper, esacerband­o il conflitto tra padre e figlia: ridotto, adattato e diretto da Giancarlo Sepe, lo spettacolo replica al Teatro La Comunità di Roma, deliziosa sala in Trastevere, fino al 21 maggio ed è coprodotto dalla Compagnia Umberto Orsini.

NELLE INTENZIONI di Sepe, “Washington Square, con il sottotitol­o Storie Americane, è un pamphlet dedicato alla lotta delle donne americane per ottenere la parità dei diritti, un viaggio al femminile nella storia statuniten­se tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento”, tra la guerra di Secessione e i suoi strascichi e i salotti scintillan­ti di Manhattan, tra una generazion­e di giovani falcidiati dal conflitto e una compagnia di giro di anziani, che bivaccano tra un party e una battuta di caccia.

La drammaturg­ia e la regia stressano intelligen­temente il taglio politico-sociologic­o della vicenda, lasciando sullo sfondo psicologia e sentimenti, di cui pure James fu maestro indiscusso: quel che conta qui, più che la fregola a- morosa, è il tentativo di ribellione di una giovane donna allo stereotipo di “moglie, madre, sorella”. Ella fallirà, e miserament­e, eppure il suo slancio passionale, estremo, vitale è destinato a dare frutti: lo dicono le fronde degli alberi che si fanno largo tra le crepe del soffitto e pendono in scena. C’è qualcosa che incombe sull’app art amen to stantio in Washington Square, qualcosa chiamato natura, istinto, vita: su questo dettaglio, geniale, si regge l’intero allestimen­to.

A differenza dei rami fluttuanti, la trama è sfrondata, ridotta all’osso e recitata in lingua: benché l’inglese sia elementare, molte sono le ripetizion­i e le spiegazion­i, mantenute forse per rendere il plot comprensib­ile, inequivoca­bile. Protagonis­ta, come si è detto, è Catherine (Federica Stefanelli), una ragazza sciapa e svenevole, innamorata, suo malgrado, di tal Morris Townsend ( Guido Targetti), un “mercenario”, un cacciatore di dote serpentino e mellifluo. Alla loro unione si oppone ovviamente il patriarca, Austin Sloper (Pino Tufillaro), grande medico e grande anaffettiv­o, ovvero un uomo saggio, pur tormentato dai fantasmi della moglie e del figlio prematuram­ente scomparsi.

Fanno il paio con le ombre del padre le illusioni della figlia, malconsigl­iata dalla zia paterna, Lavinia Penniman, intrigante, pettegola, primadonna, interpreta­ta dalla bravissima Adele Tirante, affiancata da un ensemble affiatato ed eclettico ( Sonia Bertin, Marco Imparato, Silvia Maino, Pietro Pace, Emanuela Panatta), che persino canta e balla, in un turbinio di scene dai matrimoni ai funerali, ben orchestrat­o e diretto da Sepe sulle musiche di Davide Mastrogiov­anni e Harmonia Team.

FICCANTE e puntuale è il disegno luci di Guido Pizzuti, mentre elegantiss­imi e gotici sono i costumi di Carlo De Marino, che firma anche la scenografi­a: una sala di un “museo cittadino” su cui campeggia la bandiera americana; un quadretto di morte, come i ritratti dei famigliari defunti appesi in proscenio; un museo delle cere, forse, a giudicare dai personaggi-manichini dal volto terreo e dalle pose luttuose. Il gigantesco tappeto a terra e gli armadi alle pareti ricordano, poi, quanta polvere e quanti scheletri nasconda la recita. “James è uno scrittore essenziale e cattivo”, scrive il regista nelle note. “Egli fa dei sentimenti dei veri e propri mostri, che popolano la mente dei personaggi e gli ambienti in cui vivono... Questa è un’America che si celebra pensando più ai morti che ai vivi”.

D’altronde il luogo è lì a testimonia­rlo: Washington Square, all’inizio dell’Ottocento, prima di diventare quartiere raffinato e borghese, era un affollato cimitero per indigenti e sede di esecuzioni pubbliche. Là sotto sono ancora sepolte oltre 20 mila persone: è sui cadaveri dei padri che si è sempre fatta la Storia, americana e non.

ROMA Al Teatro La Comunità l’adattament­o di “Washington Square”, romanzo del 1880 di Henry James: un viaggio al femminile sulla battaglie generazion­ali per ottenere la parità

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