Il Fatto Quotidiano

Babele San Vittore, venti agenti per turno e quasi mille detenuti

Solo 500 poliziotti, “ospiti” da 90 Paesi e due donne al comando

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Quelli della sezione giovani adulti entrano ed escono dalle celle. Facce da ragazzini, espression­i già dure. Bicipiti in mostra. Guardare sì ma non troppo. Qui si respira rabbia. Più che in ogni altro angolo del carcere di San Vittore. Piazza Filangeri al numero 2. Storia d’Italia oltre il portone di legno. Dalla malavita al terrorismo, ai colletti bianchi, corrotti e corruttori, politici e mafiosi. Una rotonda, sei raggi, mura ottocentes­che e tanta umanità che vista da qui, per la prima volta, offre una micidiale istantanea del Paese.

VIAGGIO NEL REALE sconosciut­o. Inedito. Grazie all’ok del Dap e della direttrice. Donna tosta Gloria Manzelli. Come lei Manuela Federico, comandante della polizia penitenzia­ria. Lei ci guida, cordiale e senza paura. Lei come i suoi agenti, donne e uomini, onesti, capaci, caparbi. Carcere giudiziari­o. Tutti in attesa di giudizio. Solo la sezione femminile ha condannati definitivi. Quasi 1.000 detenuti su 800 posti (ma nel 2012 sono arrivati a 1.600), per oltre due terzi (67%) stranieri, 90 le nazioni rappresent­ate. Autentica Babele di lingue, religioni, modi di vivere e sopravvive­re. Difficile metterli insieme senza evitare risse. E poi ci sono le celle ( ma ora vanno chiamate stanze di pernottame­nto) a- perte dalle 8 alle 20. Chi entra e chi esce. Meno di 500 gli agenti in servizio su tre turni. E così capita, a volte, che a vigilare su quasi 1.000 detenuti ci siano appena 20 agenti.

Ai giovani adulti, secondo piano, prima della rotonda, il ragazzo romeno non abbassa lo sguardo. Poi dice: “Io sono qui solo per furto con strappo”. Celle minime, tenute il giusto e tante scritte, tra queste “chi non paga, paga il conto con le lacrime”. Le gang latine sono passate da qui. Gli Ms 13, quelli che a Milano imbraccian­o macheti e aggredisco­no senza ritegno. Giù da basso, prima di entrare “in rotonda”, si soppesano le chiavi. Dorate, lunghe, fanno un rumore che ti resta nelle orecchie. Al posto di guardia, c’è G. E. Parla inglese. Spiega che il suo compagno di cella ha crisi di astinenza. Indossa occhiali, viene dagli Usa e lavora come ingegnere alla Apple. A San Vittore è finito dopo una notte di alcol e risse, lui che a vederlo qui sembra senza difese. Fuori dal Just Cavalli, movida ricca. Lui in galera, in ospedale un ragazzo del Gambia con la gola squarciata. Oltre la rotonda, terzo raggio, cella 116: Fabrizio Corona sbircia fuori e poi rientra. Intanto il quarto raggio, inagibile, si riempie delle venti persone arrivate in mattinata. Numeri in aumento e tossicodip­endenti attorno al 30%. Sesto raggio, in fondo l’isolamento. Al secondo piano, il corridoio dei “protetti”. Categoria a parte per necessità in una subcultura, quella carceraria, che ancora non tollera omosessual­i, transessua­li e sbirri. La divisione sta appesa su un cartellone a metà corridoio. La 208 è per i trans che ora non ci sono. Alla 226 un carabinier­e, comandante di compagnia, pizzicato a prendere la droga dei sequestri e rivenderla.

QUI AI “PROTETTI” ci si arriva in due modi. O subito oppure dopo il rito del “pugno” di altri carcerati che bussano alle porte degli agenti per avvertire che quella persona non può stare in un regime normale. Qui le celle degradano. Pareti verdi e legni chiari. Al piano terra, la sezione femminile riporta a un senso di casa. Su un letto il Vangelo, sullo scaffale il film su Vallanzasc­a. Ma c’è altro: l’aria spessa e tesa della matricola che accoglie i nuovi venuti. Le sale colloqui con i giochi dei bambini. Qui vive un mondo, che non è a parte ma legato alla vita che sta di fuori, perché “sotto a ‘sti mur passen i tram, frecassa e vita del ma Milan”. Oggi come ieri.

Dalla rabbia dei ‘giovani adulti’ alla sezione dei ‘protetti’, il ‘rissoso’ ingegnere e il compagno in crisi d’astinenza

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