Cento giorni per scoprire i segreti di mafia (e d’Italia)
Per raccontare la mafia, 100 giorni possono bastare. Cento, come i passi di Peppino Impastato, percorrendo la storia dal 5 luglio 1950 e dall’omicidio di Stato del bandito Giuliano, sino alla fine (nel suo letto di malato terminale) di Bernardo Bi nnu Provenzano, il 13 luglio 2016. E in quel calendario siciliano, quasi un breviario di morti ammazzati, di segreti infami e di complicità politiche e civili, può accadere di imbattersi in Truman Capote (era a Taormina, quel giorno, l’autore di A sangue freddo, e scrisse: “Giuliano è morto a Castedduvitranu. Triste, triste, una vergogna, un peccato, dicevano i vecchi; i giovani non dicevano niente, ma due ragazze entrarono nel negozio, e quando uscirono avevano in mano copie della Sicilia, un giornale con tutta la prima pagina presa da una gigantesca fotografia... Proteggendo i loro giornali dalla pioggia, le ragazze si allontanarono di corsa, tenendosi per mano, scivolando sulla strada lucente”), ma anche nella canzoneVecchio frac di Domenico Modugno ispirata a Raimondo Lanza di Trabia, amico di Gianni e Susanna Agnelli, inventore del calciomercato all’Hotel Gallia di Milano. Morì suicida dissero le cronache, oggi la sua famiglia parla di omicidio di mafia.
Storie di Sicilia, storie d’Italia: perché, “se proviamo a tracciare un bilancio sommario, ci accorgiamo che molti dei nodi irrisolti dell’attualità italiana provengono dalla Sicilia, oppure è nell’isola che sono diventati estremi ed evidenti: l’omicidio come strumento di pressione, il traffico internazionale della droga, la corruzione elevata a sistema, le speculazioni urbanistiche, il rapporto conflittuale tra la magistratura e la politica, le lotte intestine tra apparati dello Stato, l’uso criminale
ANATOMIA DI UN PAESE
“Molti dei nodi irrisolti della nostra attualità provengono da lì, o è nell’isola che sono diventati estremi, evidenti”
TRA TABÙ E SILENZI
I troppi misteri dell’avvocato Vito Guarrasi: “Mai sotto inchiesta, mai un’accusa, un avviso, soltanto sospetti”
dell’economia e della finanza, i grandi ricatti, il ruolo delle sette segrete, la gestione spericolata e senza regole del potere, il voto di scambio, l’uso spregiudicato e senza regole del potere, l’uso dei media, il valore civile dei prodotti culturali, il ruolo degli intellettuali, il peso degli equilibri internazionali”.
Si intitola I giorni di mafia, dal 1950 a oggi: quando, chi, come (Laterza) il libro di Piero Melati, giornalista de L’Ora di Palermo, poi di Paese Sera, de La Repubblica e de Il Venerdì. A lungo cronista di giudiziaria, con la rara fortuna che a volte tocca chi, dovendosi occupare di processi e di Codice Penale, lo fa avendo dentro la ricchezza dell’intellettuale, dei moltissimi e buoni libri letti e di una scrittura piana e sensibile.
Li ha scelti lui quei 100 giorni e poi li ha ricostruiti riuscendo a legarli, nei decenni e nella lontananza dei singoli capitoletti (un giorno, una pagina. Solo qualche volta, due), lungo il filo dei destini incrociati e dei contagi di un sottosuolo feroce, oscuro, spietato. Spesso con il coraggio di chi vuole infrangere persino dei tabù. Come quello, per esempio, dell’avvocato Vito Guarrasi, lontano cugino di Enrico Cuccia, morto il 31 luglio 1999. Fu massone, ma anche consigliere d’amministrazione de L’Ora: e forse è anche per questo che molti giornalisti – che l’hanno frequentato e conosciuto – oggi ne parlano e ne scrivono malvolentieri. Piero Melati no: “Non è mai stato sotto inchiesta per mafia, mai un’accusa, un avviso, solo sospetti. Ogni vicenda capitale lo ha visto brillare di luce oscura: lo sbarco degli americani in Sicilia, l’armistizio con gli Alleati... il milazzismo, l’attentato contro il presidente dell’Eni Mattei, il rapimento De Mauro, il finto sequestro Sindona, l’autobomba a Chinnici... C’è, nella sua biografia, ben più materia di Mastro don Gesualdo o dei Viceré...”.
Oppure le contraddizioni di Leonardo Sciascia, celebrato il 9 ottobre 1960 per Il giorno della civetta, ma poi inchiodato il 10 gennaio 1987 al giudizio di Paolo Borsellino per l’articolo sui professionisti dell’antimafia del Corriere della Sera. “Nel suo ultimo discorso pubblico, disse che Falcone aveva cominciato a morire non nel 1988 quando, andato in pensione Caponnetto, il Consiglio superiore della magistratura per la successione gli preferì Meli, iniziando così a isolarlo. No, aveva cominciato a morire l’anno prima, disse Borsellino, il giorno dell’articolo di Sciascia. Articolo, aggiunse, ‘che bollava me come un professionista dell’a ntim afia ’, Forse Borsellino fu ingiusto. Ma questi sono i fatti”.
Poi ci sono tutti gli altri giorni che ci devono essere, i fatti, i nomi. Dalla Chiesa, Ciancimino, Liggio, Gladio, Ambrosoli, Calvi, Buscetta, Riina, Montana, Cassarà, Rostagno, Piersanti e Sergio Mattarella, il golpe Borghese, Andreotti, Messina Denaro, Capaci, via D’Amelio. E ancora gli scrittori, Camilleri, Consolo, le citazioni, la serie tv dei Soprano, Pif, il film Quei bravi ragazzi, e le pagine belle come l’inaugurazione del museo Falcone- Borsellino, l’attualità di Mafia Capitale.
Ma che giorni sono venuti (e, soprattutto, quali giorni verranno) dopo la morte dello Zu Binnu Provenzano?
Il siciliano Piero Melati riempie questo vuoto spiegando il perché del suo libro: “Fare memoria, avendo come stella polare non più la schiavitù verso un ‘passato che non passa’, ma la costruzione di un futuro. Forse così, dalla Sicilia, potrà venire qualcosa di buono anche per l’I t a li a . Qualcosa che si chiama far resuscitare la speranza”.
Raccontando tutto con il distacco del cronista, ma anche secondo quel mantra che, chi conosce Melati, gli sente ripetere spesso quando parla di Cosa Nostra. È tratto dalle ultime scene di Apocalypse N ow , quando il colonnello Kurtz-Marlon Brando – un attimo prima morire – recita le parole del Cuore di Tenebra di Conrad: “L’orrore, l’orrore, bisogna essere amici dell’o rr o r e ”. Lungo il delta del Mekong come nella Sicilia dei padrini.