Il Fatto Quotidiano

“Vivrò fino alla fine per la musica: la mia vita senza rete e nostalgia”

PeppinoGag­liardi Il cantautore napoletano, tra i pilastri della musica leggera italiana, non smette di ribellarsi: “Sono un affamato di verità”

- » ENRICO FIERRO

Nato a Napoli (1940), comincia a 11 anni a suonare la fisarmonic­a. Frequenta il Conservato­rio, poi fonda il complesso i Gagliardi. Il suo primo 45 giri di successo è “T’amo e t’amerò”. Partecipa a numerosi Festival di Napoli e Sanremo, l’ultmo nel 1993 o ho suonato e cantato sempre. E lo farò fino alla fine. Ma odio la nostalgia, il ricordo dei tempi e delle melodie che furono. Perché la musica è una ricerca continua e il vero musicista non si sazia mai, è un affamato di novità”. Questa è la premessa da stamparsi bene nella mente se si decide di intervista­re Peppino Gagliardi. Stiamo parlando di uno dei pilastri della musica (cosiddetta) leggera italiana. Lo scugnizzo napoletano dalla voce sporca che partì dalle serate nei locali di Santa Lucia frequentat­i dai marines americani e conquistò il Giappone. Si classificò secondo nella hit parade del Sol Levante con Che vuole questa musica stasera, milioni di dischi venduti. Ma prima aveva fatto tre volte Sanremo, cinque il Festival di Napoli, inciso 14 Lp, quarantaqu­attro 45 giri, decine di Cd, ispirato riedizioni e cover di sue canzoni. Dino Risi ha usato Che vuole questa musica stasera per il suo capolavoro Profumo di donna. Insomma, un monumento. Per fargli un affettuoso dispetto gli portiamo un libro. Titolo Nostalgia, è l’ultimo romanzo di Ermanno Rea. Accetta libro e ironia e ci offre un caffè seduti nel salotto della sua bella casa romana. Con noi sua moglie Lucia, un passato da attrice e soubrette nelle riviste di Macario.

“HO COMINCIATO a 13 anni con la fisarmonic­a. Ho suonato e non ho rimpianti. La mia era una famiglia benestante, con un padre che ci lasciava coltivare le nostre passioni. Quando lui finì a capa sotto e non avevamo più una lira, passai al pianoforte. Mi esercitavo a casa dei miei compagni che ne avevano uno. A 15 anni truccai i documenti per suonare nei locali di Santa Lucia dove gli americani bevevano fino all’alba. Suonavo e ascoltavo tanta musica americana. A quei tempi si cantava “il mare è la voce del mio cuore…”, parole declamate da voci pulite, da fini dicitori della musica. Ma io in corpo tenevo il blues. E tanta rabbia. Mi fanno ridere quelli che oggi dicono di aver scoperto la musica etnica, io ho sempre contaminat­o le canzoni, anche quelle classiche della tradizione napoletana. Feci ‘A voce e mamma, cantata da Claudio Villa. Cambiai il ritmo e aggiunsi le voci che sentivo nei quartieri di Napoli quando le mamme chiamavano i figli di sera. …Ciccì, Pascalì, Gennarì…. E poi in T’amo e t’amerò….

Fermiamoci un attimo. Peppino è un cantante di night, suona il piano e vuole imporsi in quel mondo in fermento che è la nascente nuova musica leggera italiana. Incide per una piccola etichetta napoletana T’amo e t’amerò.

“C’era tutto: il flamenco, suggestion­i blues, un po’ di tango. E la mia voce sporca. Fu un successo e io non me ne resi conto. Ero uno scugnizzo e quando passavo per Corso Umberto sentivo la mia canzone suonata a tutto volume dai negozi di dischi con gli al- toparlanti sul marciapied­e. Ero un ingenuo e non la registrai neppure alla Siae. Stavo vendendo centinaia di migliaia di copie e manco lo sapevo. Sì, ogni tanto mi chiamavano dalla casa discografi­ca e mi davano un po’ di soldi. Avevo 20 anni. Ero un incoscient­e”. Tanto da rifiutarsi di suonare alla festa del Munacone, alla Sanità. Quartiere in quegli anni dominato da Luigi Campolongo, Naso ‘e cane. Boss amato e riverito. “Venne una sera a casa mia e mi fece una sola domanda: ‘Peppì, ma perché non volete suonare alla Sanità? Vengono i più grandi artisti. Perché mi volete far pigliare collera?’. Capii. E suonai”.

Ma Napoli è anche terra di miracoli. “Una mattina tornai a casa che erano le 7 del mattino, mia madre mi accolse tutta allarmate dicendomi che c’era un signore che mi stava aspettando. A Napoli basta avere giacca e cravatta e sei automatica­mente nu signore. Era un rappresent­ante della ca- sa discografi­ca Jolly. Mi portò subito a Roma, all’Hotel Plaza, dai dirigenti dell’etichetta. Mi volevano con loro e dovevamo fare presto. Per cui la sera mi caricarono su un vagone letto direzione Milano. Non avevo una camicia di ricambio, e quelli mi portarono in una boutique del centro. Comprai tutto in cachemire, tranne le mutande. Non le facevano”. Da allora per lo scugnizzo cambia tutto. Inizia la carriera di Peppino Gagliardi. E i grandi incontri. “Eduardo De Filippo. Una sera a Napoli decisi di farmi un whiskey allo Scarabeo. Il barman mi chiese di cantare una canzone al pianoforte”. Peppino si ferma e co- mincia ad intonare Ch io ve . “Chi si tu si ‘a canaria… Venne il proprietar­io del locale e mi disse che il direttore voleva conoscermi. Chi è stu direttore, chiesi. De Filippo, fu la risposta. Eduardo mi guardò e mi fece il più bel compliment­o della mia vita: Non ho mai sentito tanta tristezza e rabbia, avete fatto rinascere questa canzone”. Eduardo e poi una carriera lunghissim­a. Con qualche delusione. “Nel ’65 andai a San Remo con Ti credo, testo e musica innovativi, cantata in coppia con Timi Yuro. Ma non vinsi”. Colpa della cantante, americana ma di origini molisane (Timotea Aurro). Abituata al blues portava il tempo battendo la mano su due natiche da urlo. I parrucconi traballaro­no e censuraron­o. Esclusi pure dalla finale. “Ma con quella canzone conquistai i primi posti della classifica”.

Lo chiamavano l’Aznavour italiano, soprattutt­o dopo l’incisione di Se tu non fossi qui.“È vero, e la cosa mi faceva piacere. Ne parlai una sera con la sorella di Charles, lei mi disse che il fratello avrebbe dovuto cantare dei pezzi miei”.

ANNI SETTANTA, jukebox in fiamme e successi. Ma Peppino Gagliardi decide di fermarsi un’intera estate (manager e casa discografi­ca impazziti). “Volevo fare un omaggio alla mia Napoli. Grazie ad amici bibliofili, mi misi alla ricerca di inediti dei poeti napoletani, da Di Giacomo a Russo. Li studiai e li musicai. Dalla Philips pretesi una orchestra di un centinaio di musicisti. Mi presero per pazzo ma mi accontenta­rono. Così venne fuori Quando i figli chiagnene…. Un’operazione culturale. A perdere, ma di grande valore per la mia città. Napoli deve tornare ad essere regina”. Il maestro armeggia col computer e ci fa sentire un brano, T’aggio perduta. Chitarra, mandolini e tappeto di archi. “T’aggio perduta come a nu brillante che car ‘nterra e nun se trova cchiù…”, ultima frase del testo, assolo di violini… e Peppino che si commuove. Anche La ballata dell’uomo in più, fu un atto di ribellione che fece saltare i nervi a manager e discografi­ci. “Era il lato B di un 45 giri. La portai a Canzonissi­ma e mi presero per pazzo. Cantare una canzone che parla dell’ultimo della classe, l’eroe vero che non viene mai ricordato. Ora la canto nei teatri e mi accompagno da solo con la fisarmonic­a”. Peppino Gagliardi, a 76 anni, suona e canta. Dipinge bei quadri e fa concerti col figlio Massimilia­no, pianista di vaglia e pupillo del maestro Roberto De Simone. E la television­e? “Non ci vado, troppa volgarità. Io sono abituato a suonare in diretta e con le grandi orchestre. Senza rete. Perché così è stata tutta la mia vita”.

Biografia PEPPINO GAGLIARDI LO SCUGNIZZO DALLA VOCE SPORCA Partì dalle serate nei locali di Santa Lucia, frequentat­i dai marines americani, e conquistò il Giappone

I MUSICISTI DEI TEMPI MODERNI

In tv non vado, troppa volgarità. Io sono abituato a suonare in diretta e con le grandi orchestre” Peppì, ma perché non volete suonare alla Sanità? Vengono i più grandi artisti. Perché mi volete far pigliare collera?

LUIGI CAMPOLONGO, DETTO NASO ‘E CANE (BOSS AMATO E RIVERITO)

 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy