“Postwar”, la lezione di Judt: il lungo Dopoguerra è finito
Tra 2008 e 2010 Tony Judt era già molto malato: la sclerosi laterale amiotrofica rendeva ogni giorno il suo corpo più simile a un sarcofago. Mentre la malattia gli toglieva anche la voce, Tony Judt è riuscito a scrivere, dettare, comporre ben tre libri: un testamento ideale, Guasto è il mondo, un memoir, Lo chalet dei ricordi, e un saggio nato dai dialoghi con il collega di Harvard Timothy Snyder, N o ve c e nt o , tutti pubblicati da Laterza.
SU YOUTUBEsi trova ancora la sua conferenza Cosa è vivo e cosa è morto della socialdemocrazia: con l’aiuto di un respiratore, con frasi sempre brevi, compiute e come sempre eleganti, Judt ricorda quanto grandi sono state le conquiste sui diritti e l’uguaglianza nel Novecento. Fino all’ultimo respiro, in senso letterale, Judt si è impegnato a riconnettere l’Europa, gli Stati e l’Occidente in genere con la propria storia, con gli orrori di cui vergognarsi – senza dimenticarli – e con i trionfi da non accantonare in nome di qualche effimera ideologia mercatista.
Mentre il suo quotidiano era sempre più incerto - non sapeva se l’indomani i polmoni o la mano avrebbero funzionato - il futuro era per la prima volta una certezza assoluta: Tony Judt sarebbe morto nel giro di giorni, o settimane. Ai figli ha dedicato quei tre libri scritti durante la malattia, un testamento culturale. A tutti gli altri aveva già lasciato Postwar, un saggio monumentale di 1000 pagine che oggi finalmente Laterza ristampa in italiano. Questo volume è il risultato di una vita di lavoro, ma anche di passioni politiche, di un impegno progressista, certo, ma non esattamente liberal nel senso americano, che implica una dose di ingenuo ottimismo. Judt si considerava un intellettuale, parte di quella minoranza cui la società chiede di pensare per tutti, di non dimenticare quello che i popoli hanno necessità di rimuovere.
Nella distinzione di Isaiah Berlin tra le volpi che sanno molte cose e i ricci che ne conoscono una sola ma grande, Judt si sente più affine alle volpi. E Postwarnon è un libro con una tesi. Si pone in una prospettiva di umiltà, di trasmissione della conoscenza, è lo sforzo di un individuo di farsi carico della storia di un continente. Eppure la volpe Judt finisce per farsi anche riccio: la cosa grande che sa è che il Dopoguerra è una parentesi, non semplicemente un modo di definire il nostro presente iniziato nel 1945. Judt ha avuto questa intuizione nel dicembre del 1989, nella stazione Westbahnof di Vienna: il muro di Berlino è appena crollato e l’allora giovane storico, di ritorno da Praga, al centro di un’Europa dove i regimi comunisti si stanno sgretolando ma ancora sono ben visibili, capisce che “gli anni dal 1945 al 1989 sarebbero stati concepiti non come inizio di una nuova epoca ma piuttosto come una fase di transizione, una parentesi postbellica, lo strascico di un conflitto terminato nel 1945 il cui epilogo si era tuttavia protratto per un altro mezzo secolo”. Non la fine del secolo breve di Eric Hobsbawm, ma di un Dopoguerra lungo.
UNA VISIONE complementare a quella che in quegli anni diventava alla moda, frutto di citazioni distorte di La fine della storia di Francis Fukuyama che vedeva la scomparsa di alternative al modello della democrazia liberale, non l’esaurirsi degli eventi e una pace perpetua, come gli hanno attribuito molti senza leggerlo. Come Fukuyama, Judt aveva capito la cesura ma considerava la scomparsa dell’illusione comunista la chiusura di una parentesi di ideologie forti contrapposte ed equilibri post bellici irrisolti, non il traguardo di un’evoluzione salvifica.
Po st war esce nel 2005, quando Francia e Olanda boc-