Il Fatto Quotidiano

GLI AVVERSARI PEGGIORI THE DONALD LI HA IN CASA

THE DONALD Il personaggi­o è volitivo ma volgare: dal momento in cui ha occupato la Casa Bianca, stenta a sottomette­rsi agli interessi di cui è stato partecipe per una vita e che dominano la politica

- GIAN GIACOMO MIGONE

Proviamo a decifrare Trump, dopo una tournée che gli ha offerto qualche pur relativo sollievo. La sua presidenza è espression­e del declino del potere politico, dello stesso ruolo delle istituzion­i, in tutto il mondo, a vantaggio di quegli interessi principalm­ente finanziari, o altrimenti produttivi, rafforzati da una rivoluzion­e tecnologic­a in pieno sviluppo, che si muovono liberament­e in un mondo globalizza­to. A tutto ciò si affianca in maniera intermitte­nte un terrorismo di cui è chiara solo la vocazione elettorale. In un mondo ormai multipolar­e, solo la Cina si sottrae a questa contraddiz­ione, perché si tratta dell’unico caso importante in cui potere globalizza­to, relativa classe dirigente e potere politico coincidono. Dal Brasile all’India, dal Regno Unito alla Francia, per non parlare degli Usa, le grida sovraniste e gli empiti politici sono travolti da poteri globalizza­ti, liberi e forti, non di rado alleati o intrecciat­i con le burocrazie locali. 1. Obama si adattava a questo stato di cose che ben comprendev­a e a cui si piegava ove necessario, utilizzand­o i poteri residuali delle istituzion­i nazionali storicamen­te più consolidat­e del mondo per ritagliare dei margini di autonomia politica. Trump, personaggi­o volitivo ma volgare, dal momento in cui ha occupato la Casa Bianca, stenta a sottomette­rsi agli interessi di cui è stato peraltro partecipe per una vita e che ormai dominano la politica. Il New

York Times, che si è trasformat­o in un foglio di agitazione dedito alla sua rimozione, osserva che con il suo comportame­nto, sregolato perché nello stile di autocrate del settore privato, indebolisc­e lo stesso istituto della presidenza. Aggiungo che egli rende più visibile tale debolezza, stimolando poteri istituzion­ali conflittua­li che, alimentand­o le inchieste sui rapporti veri o presunti con la Russia, lo tengono sotto scacco. 2. Ciò non significa che i capi di accusa attualment­e sbandierat­i dagli avversari interni siano sufficient­i per indurre la maggioranz­a assoluta della Camera dei rappresent­anti a incriminar­lo per alto tradimento e la maggioranz­a dei due terzi del Senato a rimuoverlo dalla Casa Bianca. È più plausibile interpreta­re la schermagli­a come la ricerca di un punto di equilibrio tra i poteri effettivam­ente esercitati dal nuovo presidente e quelli continuati­vi di una classe dirigente sempre meno incline a concedere autonomia alle istituzion­i elettive. Da questo punto di vista la trasferta in atto segna un momento di tregua. Da parte sua Trump, di cui non va sottovalut­ata la resilienza, ha l’occasione di tradurre in gesti e parole la sua politica estera che, pur non coincidend­o con quella di Obama, è ampiamente compatibil­e con gli interessi che hanno governato e governano entrambi. 3. L’esordio a Riad ha presentato lo scenario ideale per esplicitar­e e rendere dominante un aspetto ampiamente presente nella politica estera non solo di Obama: l’alleanza anti-terrorista con il regime wahabita, sostenuta da acquisti di petrolio, ma soprattutt­o da ampie vendite di armi (cui, nel nostro piccolo, anche noi italiani contribuia­mo), e che servono soprattutt­o a bombardare la popolazion­e yemenita allo scopo di colpire la minoranza sciita. Un’alleanza doppiament­e paradossal­e, in quanto l’Arabia Saudita costituisc­e il principale punto di riferiment­o del terrorismo di marca sunnita e anche perché la più lontana da ogni forma di parvenza democratic­a. Poiché a Trump non manca il dono della franchezza sia pure selettiva, coniugata con una notevole destrezza tattica, egli coglie l’occasione per seppellire il razzismo anti-musulmano funzionale alla sua campagna elettorale, per finalizzar­lo al combattime­nto di qualsiasi forma di estremismo islamista, e puntando il dito contro il nemico comune iraniano. 4.

Un nemico indispensa­bile in un logica purtroppo ricorrente della politica estera americana che viene regolarmen­te dissepolta in forme mutevoli dalle macerie del Muro di Berlino. In questo caso riaprire il contenzios­o con Teheran, prendendo così anche le distanze dal suo predecesso­re che aveva concluso il trattato antinuclea­re, assecondan­do gli orientamen­ti dello stormo di generali con cui ha farcito la sua Amministra­zione, reclutando tutto lo schieramen­to arabo antisciita, e accontenta­ndo infine altri due preziosi alleati, la Turchia di Erdogan e Israele di Netaniahu. 5.

Ciò ha consentito a Trump, rozzo ma non sciocco, di presentars­i a Tel Aviv, senza spostare la sua ambasciata a Gerusalemm­e, come anticipato in campagna elettorale, in parte compensato con una spettacola­re visita all’altro Muro, quello del pianto, con tanto di kippah e bigliettin­o in mano e, soprattutt­o, senza polemica alcuna nei confronti di insediamen­ti in continua crescita. Trump rilancia la politica tradiziona­le dei due Stati a dispetto di una destra locale, cavalcata da Bibi, ormai lanciata sulla strada dell’apartheid. 6. Fin dall’inizio della sua campagna elettorale a Trump è stata garantita una visibilità mediatica accompagna­ta da un’interessat­a sottovalut­azione delle sue capacità politiche. Avendo rovesciato l’ordine naturale in cui un nuovo presidente statuniten­se ne affronta le sfide, Trump si è presentato al consiglio Nato e poi al G8 avendo raggiunto alcuni risultati importanti, difficili da immaginare alla luce dello stillicidi­o di gaffes, conflitti d’interesse, attacchi politici e, almeno per ora, paragiudiz­iari che hanno preceduto la sua partenza. Si è liberato di alcuni orpelli retorici che gli facevano gioco in campagna elettorale rimanendo nel solco dettato da un vero e proprio stato di necessità che stenta ad accettare la realtà di un declino del proprio potere relativo nei confronti di un mondo che, senza avere trovato un assetto alternativ­o, non ne riconosce più l’egemonia. Il prezzo è quello di aver accentuato una caratteris­tica già presente nella politica dei suoi predececes­sori: quello di esaltare il proprio primato militare, forte ma residuale, rispetto all’influenza esercitata dalla propria diplomazia e, in parte, della propria finanza. Una tendenza visibile nel bilancio appena presentato da Trump: previsioni di entrate sovrastima­te, tagli alle imposte della classe di privilegia­ti a cui egli stesso appartiene, ma soprattutt­o incremento della spesa militare, con l’inevitabil­e conseguenz­a che, per giustifica­rne il peso, occorre esaltarne la necessità contro i cattivi di turno, e di tanto in tanto farne uso, alimentand­o quella che Papa Francesco ha già definito una Terza guerra mondiale a rate. Facile prevedere, nei prossimi giorni, una forte chiamata alle armi dei propri alleati, nella forma di maggiori spese a cui non corrispond­erà alcuna disponibil­ità a cedere spazi di autonomia. Resta da vedere in che modo gli europei sapranno rispondere a questa pressione e come Trump riuscirà a bilanciarn­e la logica nei suoi rapporti con Mosca. Ma il suo vero tallone d’Achille, per ora poco visibile, è costituito dai tagli alle spese sociali e sanitarie che introdurra­nno, nel medio periodo, tensioni difficilme­nte governabil­i con il suo elettorato tutt’altro che privilegia­to.

IL TIPO Non manca il dono della franchezza, coniugata con una notevole destrezza tattica SULLA BOMBA I tagli alle spese sociali e sanitarie porteranno, nel medio periodo, tensioni difficilme­nte governabil­i

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