GLI AVVERSARI PEGGIORI THE DONALD LI HA IN CASA
THE DONALD Il personaggio è volitivo ma volgare: dal momento in cui ha occupato la Casa Bianca, stenta a sottomettersi agli interessi di cui è stato partecipe per una vita e che dominano la politica
Proviamo a decifrare Trump, dopo una tournée che gli ha offerto qualche pur relativo sollievo. La sua presidenza è espressione del declino del potere politico, dello stesso ruolo delle istituzioni, in tutto il mondo, a vantaggio di quegli interessi principalmente finanziari, o altrimenti produttivi, rafforzati da una rivoluzione tecnologica in pieno sviluppo, che si muovono liberamente in un mondo globalizzato. A tutto ciò si affianca in maniera intermittente un terrorismo di cui è chiara solo la vocazione elettorale. In un mondo ormai multipolare, solo la Cina si sottrae a questa contraddizione, perché si tratta dell’unico caso importante in cui potere globalizzato, relativa classe dirigente e potere politico coincidono. Dal Brasile all’India, dal Regno Unito alla Francia, per non parlare degli Usa, le grida sovraniste e gli empiti politici sono travolti da poteri globalizzati, liberi e forti, non di rado alleati o intrecciati con le burocrazie locali. 1. Obama si adattava a questo stato di cose che ben comprendeva e a cui si piegava ove necessario, utilizzando i poteri residuali delle istituzioni nazionali storicamente più consolidate del mondo per ritagliare dei margini di autonomia politica. Trump, personaggio volitivo ma volgare, dal momento in cui ha occupato la Casa Bianca, stenta a sottomettersi agli interessi di cui è stato peraltro partecipe per una vita e che ormai dominano la politica. Il New
York Times, che si è trasformato in un foglio di agitazione dedito alla sua rimozione, osserva che con il suo comportamento, sregolato perché nello stile di autocrate del settore privato, indebolisce lo stesso istituto della presidenza. Aggiungo che egli rende più visibile tale debolezza, stimolando poteri istituzionali conflittuali che, alimentando le inchieste sui rapporti veri o presunti con la Russia, lo tengono sotto scacco. 2. Ciò non significa che i capi di accusa attualmente sbandierati dagli avversari interni siano sufficienti per indurre la maggioranza assoluta della Camera dei rappresentanti a incriminarlo per alto tradimento e la maggioranza dei due terzi del Senato a rimuoverlo dalla Casa Bianca. È più plausibile interpretare la schermaglia come la ricerca di un punto di equilibrio tra i poteri effettivamente esercitati dal nuovo presidente e quelli continuativi di una classe dirigente sempre meno incline a concedere autonomia alle istituzioni elettive. Da questo punto di vista la trasferta in atto segna un momento di tregua. Da parte sua Trump, di cui non va sottovalutata la resilienza, ha l’occasione di tradurre in gesti e parole la sua politica estera che, pur non coincidendo con quella di Obama, è ampiamente compatibile con gli interessi che hanno governato e governano entrambi. 3. L’esordio a Riad ha presentato lo scenario ideale per esplicitare e rendere dominante un aspetto ampiamente presente nella politica estera non solo di Obama: l’alleanza anti-terrorista con il regime wahabita, sostenuta da acquisti di petrolio, ma soprattutto da ampie vendite di armi (cui, nel nostro piccolo, anche noi italiani contribuiamo), e che servono soprattutto a bombardare la popolazione yemenita allo scopo di colpire la minoranza sciita. Un’alleanza doppiamente paradossale, in quanto l’Arabia Saudita costituisce il principale punto di riferimento del terrorismo di marca sunnita e anche perché la più lontana da ogni forma di parvenza democratica. Poiché a Trump non manca il dono della franchezza sia pure selettiva, coniugata con una notevole destrezza tattica, egli coglie l’occasione per seppellire il razzismo anti-musulmano funzionale alla sua campagna elettorale, per finalizzarlo al combattimento di qualsiasi forma di estremismo islamista, e puntando il dito contro il nemico comune iraniano. 4.
Un nemico indispensabile in un logica purtroppo ricorrente della politica estera americana che viene regolarmente dissepolta in forme mutevoli dalle macerie del Muro di Berlino. In questo caso riaprire il contenzioso con Teheran, prendendo così anche le distanze dal suo predecessore che aveva concluso il trattato antinucleare, assecondando gli orientamenti dello stormo di generali con cui ha farcito la sua Amministrazione, reclutando tutto lo schieramento arabo antisciita, e accontentando infine altri due preziosi alleati, la Turchia di Erdogan e Israele di Netaniahu. 5.
Ciò ha consentito a Trump, rozzo ma non sciocco, di presentarsi a Tel Aviv, senza spostare la sua ambasciata a Gerusalemme, come anticipato in campagna elettorale, in parte compensato con una spettacolare visita all’altro Muro, quello del pianto, con tanto di kippah e bigliettino in mano e, soprattutto, senza polemica alcuna nei confronti di insediamenti in continua crescita. Trump rilancia la politica tradizionale dei due Stati a dispetto di una destra locale, cavalcata da Bibi, ormai lanciata sulla strada dell’apartheid. 6. Fin dall’inizio della sua campagna elettorale a Trump è stata garantita una visibilità mediatica accompagnata da un’interessata sottovalutazione delle sue capacità politiche. Avendo rovesciato l’ordine naturale in cui un nuovo presidente statunitense ne affronta le sfide, Trump si è presentato al consiglio Nato e poi al G8 avendo raggiunto alcuni risultati importanti, difficili da immaginare alla luce dello stillicidio di gaffes, conflitti d’interesse, attacchi politici e, almeno per ora, paragiudiziari che hanno preceduto la sua partenza. Si è liberato di alcuni orpelli retorici che gli facevano gioco in campagna elettorale rimanendo nel solco dettato da un vero e proprio stato di necessità che stenta ad accettare la realtà di un declino del proprio potere relativo nei confronti di un mondo che, senza avere trovato un assetto alternativo, non ne riconosce più l’egemonia. Il prezzo è quello di aver accentuato una caratteristica già presente nella politica dei suoi predececessori: quello di esaltare il proprio primato militare, forte ma residuale, rispetto all’influenza esercitata dalla propria diplomazia e, in parte, della propria finanza. Una tendenza visibile nel bilancio appena presentato da Trump: previsioni di entrate sovrastimate, tagli alle imposte della classe di privilegiati a cui egli stesso appartiene, ma soprattutto incremento della spesa militare, con l’inevitabile conseguenza che, per giustificarne il peso, occorre esaltarne la necessità contro i cattivi di turno, e di tanto in tanto farne uso, alimentando quella che Papa Francesco ha già definito una Terza guerra mondiale a rate. Facile prevedere, nei prossimi giorni, una forte chiamata alle armi dei propri alleati, nella forma di maggiori spese a cui non corrisponderà alcuna disponibilità a cedere spazi di autonomia. Resta da vedere in che modo gli europei sapranno rispondere a questa pressione e come Trump riuscirà a bilanciarne la logica nei suoi rapporti con Mosca. Ma il suo vero tallone d’Achille, per ora poco visibile, è costituito dai tagli alle spese sociali e sanitarie che introdurranno, nel medio periodo, tensioni difficilmente governabili con il suo elettorato tutt’altro che privilegiato.
IL TIPO Non manca il dono della franchezza, coniugata con una notevole destrezza tattica SULLA BOMBA I tagli alle spese sociali e sanitarie porteranno, nel medio periodo, tensioni difficilmente governabili