Vita da “Inox”: com’è davvero un’acciaieria
Dopo 20 anni alla Thyssenkrupp, lo scrittore racconta il lavoro in fabbrica
Epensare
che in stabilimento ci sono arrivato per mia scelta. Fesso io. Certo, ma a me la fabbrica nessuno me l’ha mai raccontata, e se oggi la racconto io è solo perché ne sono uscito. Se solo mi avessero avvertito, però, non ci avrei mai messo piede. Avrei portato a termine gli studi universitari, sarei diventato ingegnere, sarei stato uno di quelli che stanno dall’altra parte, quelli che comandano e dispongono del personale assegnato. Ma non lì, non all’acciaieria, in qualche altra industria, della chimica o dell’elettronica, in un ambiente di lavoro più pulito e meno chiassoso.
Per entrarci devi essere ammanicato forte, si diceva. È stato sempre così. Un posto sicuro, da arrivarci alla pen- sione. Un ottimo stipendio, e coi turni avevi buona parte della giornata libera. O di mattina o di pomeriggio. Sì, avevi da combattere col caldo asfissiante, e ti gironzolavano sopra la testa bestie pesanti quanto un carrarmato, però lavoravi con un’azienda dello Stato e se ti facevi furbo, con le giuste conoscenze, ti ci sistemavi a vita. Questo accadeva fino ai primi anni Novanta. Poi l’acciaieria è stata privatizzata, il circo a tre piste ha ammainato il tendone e tutto si è razionalizzato. Ho fatto appena in tempo a vederlo quel mondo lì, dedito al consociativismo, quando la politica dettava l’agenda economica del Paese, la corsa a fondere e produrre che non si arrestava neanche davanti ai magazzini strapieni di lamiere pronte per essere commercializzate. L’arte della rimessa, perché si svendeva solo per far spazio a nuovi prodotti, al solo scopo di non fermare i forni. Poi sono arrivati i tedeschi e hanno messo un freno a una errata gestione degli impianti, almeno a sentir loro. Non si è scherzato più. Sì, risate quante te ne pare, ma nel chiuso della cabina del forno.
Quella è stata la mia prima mansione: addetto sala controllo. Carichi, fondi e svuoti, carichi, fondi e svuoti, all’infinito.
LE ORE PASSATE davanti ai monitor e ai pulsanti lampeggianti mi hanno fatto rimpiangere tutte le decisioni prese fino a quel momento. Arrivato a trent’anni mi sono sentito ingabbiato, in quella fabbrica, e le uniche speranze erano riposte nelle possibilità di carriera: un cambio di ruolo, di reparto. Dopo sei anni di turni avvicendati, sabati e domeniche comprese, avrei voluto tornare indietro; nelle nottate a guardia del forno ne ho fatte di considerazioni sulla mia vita, non solo sulla fabbrica; notti passate a maledire la scelta di abbandonare i banchi dell’uni- versità. Se ingegneria non mi piaceva avrei dovuto trovare il coraggio di studiare altro. Avrei desiderato frequentare una facoltà umanistica, ma era un privilegio dei figli di papà; io avevo da guadagnarmi il pane, secondo i miei genitori di lettere o di filosofia non si campava – verità, questa, for- se valida ancor oggi. È in quei travagli che in me si è radicato l’intento di raccontare l’acciaieria non appena ne avessi avuto la possibilità; l’ho tenuto dentro di me il germe, portandolo allo scoperto dopo molti anni: me ne sono reso conto dopo esserne uscito. Ho realizzato che potevo mantenere lo sguardo all’interno dei confini della fabbrica anche se ne ero stato espulso.
Nelle nottate a guardia del forno ne ho fatte di considerazioni sulla mia vita, e ho maledetto
IL MIO ROMANZO, Inox, è il tentativo di dare sacralità a riti quotidiani, familiari a chi ci lavora e sconosciuti a chi ci vive accanto – allo stabilimento e a loro stessi, gli operai. Ho descritto il lavoro ciclico, duro e noioso, in un ambiente di lavoro insalubre, a stretto contatto con l’acciaio fuso e i pericoli che ne derivano, da molti sottovalutati. Ripartendo da zero, ho deciso che il mio tempo era il bene più prezioso che avessi a disposizione e, alla soglia dei cinquant’anni, la prospettiva di produrre qualcosa per se stessi assume più importanza che produrre beni di consumo.