I Ceri, le tavole, i palazzi patrizi: il sogno di Gubbio (nonostante Trenitalia)
Sei ore di treno, lento e scomodo, per un viaggio nella cittadina umbra che conserva la cortesia marchigiana
Fuor dei percorsi delle “fr ec ci e”, che hanno cambiato in meglio la vita di molti, l’Italia è collegata da un vecchio sistema ferroviario, lento e non più manutenuto. Un paese civile si misura dalla qualità dei suoi treni, e che per giungere da Roma in Abruzzo, Umbria e nelle Marche, o da Roma e Napoli in Puglia e nel Salento, ci s’impieghino troppe ore è una delle tante cose di cui dobbiamo ringraziare gli Agnelli, che hanno impedito lo sviluppo ferroviario per i loro interessi, colla classe politica a servirgli. Nondimeno preferisco i lentissimi “regionali” all’automobile; in treno si può leggere e guardare il paesaggio.
Non c’è angolo d’Italia che non sia meraviglioso, e inerpicarsi lentamente da Roma verso le colline dell’I tal ia centrale consente di contemplare tali meraviglie con un perduto senso del tempo. Sul Roma-Ancona sono quasi il solo: tutti gli studenti, ma anche i miei coetanei, ormai passano il tempo col telefoni- no in mano, a chattare.
La stazione di Gubbio dista venti chilometri dalla città. Percorrendoli in macchina la qualità della luce e la dolcezza delle colline fanno comprendere che siamo più nelle Marche gentili che nella severa Umbria.
GUBBIO ERA del dominio dei Montefeltro, una delle dinastie delle quali noi italiani dobbiamo andare più fieri. La cortesia degli eugubini è del carattere marchigiano. La domenica pomeriggio del 14, vigilia della Festa dei Ceri, il museo allogato nel palazzo dei Consoli è rigorosamente chiuso. Ma impietosisco una funzionaria, che mi apre la stanza delle tabulae eugubinae . Sono sette, e ho potuto toccarle. Una delle mie grandi emozioni: e lo desideravo da cinquant’anni, da quando il mio insegnante di latino al liceo c’illustrò questo reperto d’importanza fondamentale. Gli Umbri furono la prima po- polazione indoeuropea a discender nella penisola. Nel terzo secolo venne redatto un documento di prescrizioni rituali in lingua umbra e in un alfabeto simile a quello usato dai latini più antichi. L’esempio più arcaico d’un alfabeto similare, destinato a diventare il nostro, è della fibula praen e s ti n a , risalente all’ep o c a regia. Le tavolette bronzee sono piccole, verdastre, perfettamente conservate, leggibili: un vertiginoso contatto con duemilaquattrocento anni fa, che poi reinvia sempre più indietro…
SULLA PIAZZA, il Palazzo dei Consoli, uno dei più belli d’Italia fra quelli del Medio Evo. La Festa dei Ceri risale al dodicesimo secolo: in onore del patrono Sant’Ubaldo, si estese a San Giorgio e Sant’Antonio Abate. Posso godere dell’osservatorio privilegiato delle finestre di Francobaldo Chiocci. C’è anche uno dei figli, il mio amico Gian Marco, direttore del Tempo, colui che scoprì lo scandalo della casa di Gianfranco Fini a Montecarlo. Francobaldo, ottantaquattrenne, uno dei grandi vecchi del nostro giornalismo, autore delle biografie di Donna Rachele e di Padre Pio, è patrizio eugubino. Mi spiega che il rito è la trasformazione di arcaicissime falloforie in onore della Bona Dea, il culto della quale in Roma condusse al celebre scandalo di Clodio introdottosi in casa di Cesare travestito da donna. La dea, prisca italica, fu poi soggetta a una fusione sincretistica con Cerere e Cibele. E San Paolo tentò di estirpare il paganesimo, la grandezza della Chiesa fu nel riporlo in onore.
I CERI LIGNEI percorrono la piazza gremita. Il pomeriggio i portatori percorrono i declivî della città a passo di corsa. La casa, elegante e semplice, è sita nel palazzo Ranghiasci, medioevale ricostruito in epoca neoclassica. I soldi furono di una nobildonna londinese, Matilde Hobhouse, che il padre spedì in Italia per la vergogna ch’ella fosse l’amante di Ugo Foscolo. Certo, un sommo poeta, italiano ed esule: tre buoni motivi...